04 Gen Michael Hersch – The Vanishing Pavilions – mvt. II – artwork Fraddosio/Mazur
Il compositore Michael Hersch si è ispirato alle opere di Antonio Fraddosio per la composizione di questo brano.
Il compositore Michael Hersch si è ispirato alle opere di Antonio Fraddosio per la composizione di questo brano.
L’arte occidentale è vissuta e vive ancora in buona misura del rapporto dialettico tra istinto e ragione, ispirazione e metodo, caos e ordine, classico e anticlassico, che possono poi ricondursi in ultima analisi alla filosofia aristotelica e alla sua poetica del “fare” da un lato ed alla filosofia neoplatonica ed alla sua poetica del “creare” dall’altro. Rapporto dialettico che si è di volta in volta sostanziato nei contrasti tra Rinascimento e Manierismo, Classicismo e Barocco, Positivismo e Romanticismo, Razionalismo ed espressionismo, fino al dibattito tra figurazione ed astrazione, tra realismo ed arte concettuale ancora vivo ai giorni nostri. Spesso questi rapporti dialettici sono stati, dalla storiografia delle varie epoche, personalizzati a loro volta in scontri tra grandi artisti: Raffaello e Michelangelo, Caravaggio e Annibale Carracci, Bernini e Borromini, via via fino a Picasso e Dalì, Matisse e Mondrian, Guttuso e Burri. Nel secolo appena trascorso, poi, dopo i grandi fermenti rivoluzionari che sembravano aver definitivamente decretato la “morte” dell’arte o quanto meno delle sue forme e tecniche più tradizionali, proprio nell’ultimo scorcio si è assistito a un prepotente e massiccio “ritorno all’ordine” che non è più stato vissuto come qualcosa di passatista o rétro ma al contrario ha assunto esso stesso un aspetto quasi liberatorio o addirittura provocatorio, cosicché oggi possiamo dire che dipingere una natura morta o un paesaggio è attuale così come esporre una istallazione piena di sassi o carta straccia e che un artista informale o concettuale è “moderno” quanto un iperrealista o un neomanierista.
Insomma si può dire che oggi, finalmente, non contano più le etichette o gli “ismi” ma piuttosto la qualità della produzione estetica, ed ecco allora che un artista poliedrico e difficilmente inquadrabile in uno schema predefinito come Fraddosio può essere giudicato e apprezzato proprio per l’indubbio fascino delle sue opere. Ma attenzione, essere senza etichettature non significa essere avulso o isolato da quanto si è prodotto finora, tutt’altro; significa piuttosto vivere determinate tradizioni e d esperienze passate come stimoli e non come camicie di forza. Così, come molto opportunamente ha osservato Gabriele Simongini “in modi e forme molto personali Fraddosio si ricollega a quella stagione creativa che nella seconda metà del Novecento ha portato alcuni rigorosi artisti italiani a dare vita all’avventura dell’attraversamento e del superamento della superficie della tela verso altre dimensioni” e qui vengono citati Fontana e Burri, Castellani e Manzoni, Bonalumi e Dadamaino: “Mentre però – continua Simongini – molti degli artisti prima citati erano i cultori di un azzeramento radicale di qualsiasi emozionalità pittorica… Fraddosio non è interessato a fare una tabula rasa troppo radicale. Sa essere per certi versi minimale, dando voce a pochi colori e a strutture essenziali, ma comunque lasciando parlare l’inquietudine di una materia che dà immagine a quelle che si potrebbero chiamare “cartografie dello spirito”, fatte di avvallamenti, anfratti, dirupi, sentieri interrotti, crepacci, pendii dilavati”.
Del resto Fraddosio è un architetto, conosce come pochi i risvolti più segreti della materia, sia essa legno, pietra, cartone, cemento, sa quale ordine interno si celi dietro il caos apparente o al contrario come la più classica delle strutture nasconda in sé abissi di ignoto. Proprio dopo aver meditato sulle opere del nostro artista mi è capitato di passare davanti al Pantheon, il più “classico” dei monumenti esistenti al mondo, anzi l’essenza stessa della “classicità” e di notare per la prima volta tra quei marmi e quelle pietre, fessure, sbrecciature che si sono aperte ai miei occhi come voragini improvvise, romantiche percussioni di infinito che mi hanno fatto amare ancor di più quel monumento già da me tanto amato e me ne hanno fatto apprezzare ancor di più la modernità sconvolgente e assoluta. E allora ho compreso come questo retaggio classico che ogni artista italiano (e parlo ovviamente di artisti veri) porta con sé ne rappresenti la differenza rispetto a pur sommi artisti stranieri. Nel caos disperato di Pollock c’è la ribellione tangibile verso una civiltà metropolitana sempre più frenetica e consumistica ma non c’è, ovviamente, nessuna ombra di ordine o di retaggi del passato; nell’apparente informe casualità dei cretti di Burri vi è invece tutto il rigore concettuale della tradizione storica italiana, cui anche Fraddosio, a suo modo, è molto sensibile.
Tra le opere di Fraddosio quella che meglio di altre può riassumerne la poetica è forse Tensioni, in legno, stucco e catrame, del 2000, magistralmente descritta da Rocco Familiari: “La parete è qualcosa che divide o, al contrario, racchiude, che separa o, invece, riunisce. Taglia lo spazio e lo raccoglie. Sembra poter conciliare gli opposti. Può essere sottile quanto un foglio di pergamena, come nelle case giapponesi, o possente, come nelle costruzioni medievali. Piegarsi ad arco, dispiegarsi come una vela e sostenere le svettanti cupole delle cattedrali.
Quello che non può fare, non ha mai fatto, è esistere per sé. Inimmaginabile una parete senza una struttura da sostenere, uno spazio da dividere o da rinserrare, uomini da separare o da proteggere. Questa che l’autore, Antonio Bernardo Fraddosio ha voluto intitolare “Tensioni” lo è. Una parete che racchiude in se stessa lo spazio, che resiste, invece, si contrae, si addensa, si raggruma, si espande per esplodere poi laddove trova un’incrinatura, un varco… una Parete-totem, di fronte alla quale diventa inutile porsi la domanda di cosa nasconda, da che cosa ci separi, una parete specchio, che riflette le nostre inquietudini e ci restituisce l’immagine delle nostre deformità, quelle che tentiamo di celare agli altri, diventando noi stessi una invalicabile parete”.
Ancora un “quadro-parete” è Alterazioni del ’98, che si sviluppa tutto in senso orizzontale e riassume in sé ordine e casualità, classico e anticlassico, rigore e improvvisazione, mentre Lesione, sempre del ’98, tutto incentrato sul contrasto del bianco dello stucco e del bruno del legno, vive di interne tensioni, così come Macrolesioni del 2000, con la sua superficie lacerata e piena di fratture. In Dilavamento dell’anno successivo il colore diviene protagonista, con quella colata di arancio che si fa strada quasi a fatica tra il grigio della materia circostante. In Arianna sempre del 2001, un filo sottile si dipana lungo la superficie bianca lasciando impercettibili tracce di sé e recuperando una piena valenza pittorica che diventa quasi esuberantemente barocca in Legature . Mentre la sua esperienza di scenografo emerge in tutta la sua creatività in Torsioni del 2003, con quella grata che fa capolino tra la cascata bianca di stucchi e carta, sbarra di prigione o retaggio neoplatonico che ci riporta fino al Verrocchio e al suo sublime monumento funebre a Piero e Giovanni de’ Medici in San Lorenzo a Firenze.
La materia, in Fraddosio diventa sempre più intercambiabile e d allora ecco un lamierino in ferro piegarsi e avvolgersi come carta da pacco in Lamiera del 2004, o il legno e il cartone assumere quasi la morbidezza di una stoffa in Permeazioni dello stesso anno. In Compressioni su monolite del 2005 tutta la poetica precedente viene riassunta in queste due pareti in sé autosufficienti che però al contempo si attraggono, si respingono, dialogano e si ignorano, specchio di sé, ma anche un po’ di noi stessi, come osservava appunto Familiari.
Il tema del paesaggio urbano, memore dell’informale di Mimmo Rotella e dei suoi cartelloni
pubblicitari strappati e ricomposti in un nuovo (dis)ordine affiora ad esempio in Stratificazioni urbane, o in Dislocazione sempre del 2005, fino al drammatico Ruderi metropolitani del 2006, struttura in costruzione lasciata incompiuta o piuttosto residuo di qualche edificio distrutto? E bisogna dire che l’arte di Fraddosio assume in queste sue ultimissime prove toni sempre più concitati e angosciati, come anche i titoli delle sue opere testimoniano: Scissura, Sfibramento, Vortice, Lacerazione. Ma come in Burri o in Fontana l’apparente caos della materia trova un riscatto proprio nella bellezza dell’arte che riesce a sublimare anche il più informe groviglio trasformandolo in un bellissimo principe, quasi Materia al limite, come recita una delle sue composizioni più recenti.
Sergio Rossi
Il problema del rapporto fra varie parti costituenti lo spettacolo teatrale è vecchio come il teatro stesso, ma è recente, anche se non è difficile rintracciare, nella sua storia millenaria, precedenti illustri in tal senso, la teorizzazione della “pari dignità” degli elementi che concorrono a realizzare la sua “unità”, diciamo da Wagner in qua per l’opera lirica e da Appia e Craig per il teatro di prosa.
La progressiva enfatizzazione del ruolo del regista (analogamente a quanto avvenuto, in parallelo, per l’orchestra, in cui al primo violino, che dava anche il tempo, restando l’esecuzione un’operazione collettiva, si è via via sovrapposto il Direttore, solitario, autentico demiurgo dell’interpretazione) ha portato con sé, per un verso, una riduzione dell’importanza della parte letteraria, anche se essa rimane, comunque, contro ogni tentativo di ridimensionamento, la struttura portante dell’evento teatrale, per l’altro, un maggiore coinvolgimento della figura dello scenografo, chiamato sempre più spesso a costruire sofisticati meccanismo e, comunque, a sottolineare, con immagini di forte valenza simbolica, il significato rintracciato dal registra fra le righe o le pieghe del testo messo in scena, quasi mai, come dovrebbe essere naturale, nel corpo dello stesso…
Ironia a parte, in opere che hanno bisogno di mediazioni interpretative per essere fruite, come il teatro o la musica, l’apporto di varie sensibilità, culture, personalità, per fare emergere tutti i possibili livelli di lettura di un testo, così come di una partitura, è essenziale.
Ha avuto scarsa eco in Italia, se non fra una ristretta cerchia di specialisti soprattutto di musicologia (per una sua opera fondamentale, “L’opera musicale e il problema della sua identità”) la riflessione del fenomenologo polacco Roman Witold Ingarden (maestro, fra gli altri, di Wojtyla e anche, dal ’59 al ’61, di K. Zanussi), il quale ha teorizzato la concezione del dramma come “partitura” (che è anche alla base dell’opera di Wyspianski e ritornerà in Grotowski), nella “Fenomenologia dell’opera letteraria” del ’31 (nonché nel successivo “Von den Funktionen der Sprache in Theaterschauspiel”). La nozione fondamentale è la “stratificazione” del prodotto artistico (strato fonico, dei significati delle parole e delle frasi, degli oggetti denotati, dell’apparenza degli oggetti). L’interpretazione dell’opera d’arte consiste quindi nel ricostruire l’articolazione dei vari strati.
Per quanto riguarda, in particolare, l’interpretazione del testo teatrale, Ingarden attribuisce importanza fondamentale alle parole recitate che servono non soltanto a descrivere l’azione, ma connotano i personaggi attraverso tutta la gamma dei “segni” utilizzati sulla scena, gesti, espressioni del viso, timbro, colore, intonazione.
Assimila così l’”esecuzione” dell’opera “scritta”, anzi del dramma “letto”, all’esecuzione musicale, che “elimina le lacune o i punti di indeterminatezza che compaiono nell’opera musicale”.
Da ciò, a mio parere, la necessità che autore e interprete siano persone diverse. Personalmente, salvo rarissime eccezioni, trovo mortificanti le esecuzioni di opere musicali da parte degli stessi autori, come se questi, anche quando tecnicamente bravi direttori o solisti, fossero incapaci di estrarre, dalle proprie creazioni, tutta la ricchezza di significati che esse contengono.
Basti ascoltare l’incisione della “Sagra della Primavera” diretta da Strawinsky stesso e confrontarla con quella interpretata da Boulez. Piatta la prima, addirittura banale, insuperabile invece quest’ultima, per acutezza di analisi, densità, profondità. La cosa, anche se può apparire paradossale è, invece, pienamente coerente con la natura dell’opera d’arte, che è quella di avere un’esistenza autonoma, quindi di poter andare al di là delle “intenzioni” del suo creatore e trascenderlo. Altrimenti è una cosa non viva, che non aggiunge alcunché all’esistente. Inutile.
Non c’è da sorprendersi, pertanto, se lo stesso autore è ignaro della molteplicità di significati che essa contiene. Non si spiegherebbe, se non fosse così, la capacità dell’arte di interessare popoli di culture le più lontane fra loro e di mantenere inalterata tale capacità nei secoli.
Anche per il dramma vale lo stesso principio. Certo, la parola ha meno livelli di opinabilità di un accordo e “les modes de valeur e d’intensité” attengono più alla musica e alla poesia che a una piéce, ma esiste sempre una parte oscura, ignota allo stesso autore, che soltanto sensibilità diverse, quelle degli interpreti innanzitutto, possono scoprire.
Personalmente, nelle poche regie che all’inizio della mia attività teatrale ho curato, ho sempre preteso la collaborazione di artisti – pittori o scultori – per le scenografie e non per avere delle “firme” illustri, ma soprattutto per confrontare il mio punto di vista – di esegeta della parola, che doveva lavorare su un testo da interpretare, far rivivere, per mezzo di attori nei quali le parole si incarnavano – con quello di chi era abituato a interpretare la realtà con una diversa sensibilità, una capacità di “visione”, non solo in senso letterale, più sincretistica, se così posso dire. Il risultato è sempre stato innanzitutto un arricchimento reciproco, ma anche un approfondimento dell’interpretazione e quindi una moltiplicazione dei livelli di fruizione dello spettacolo.
Quando ho proposto al regista di questo spettacolo di commissionare la scena a Fraddosio, che è sì architetto e quindi certamente capace di costruire una “prigione” e una “stanza”, che sono i due soli ambienti in cui si svolge il dramma dei protagonisti de “L’odore”, ma è, soprattutto, uno scultore, capace di evocare, con le sue “pareti viventi”, la prigione in cui ciascuno di noi vive, speravo che dal contatto fra due diversi “mondi di visione” uscisse arricchito il livello di lettura di un testo che mette in scena passioni disperate e quindi non può essere trattato alla stessa stregua di un dramma politico o di una commedia di evasione.
La scena, in questo, doveva essere funzionale ed evocativa al tempo stesso.
Operazione analoga a quella felicemente attuata con la Fioroni, per il precedente “Orfeo Euridice”.
Gli autori, in genere, sono sempre insoddisfatti o, addirittura, si sentono traditi (basti per tutti la reazione di Pirandello, così efficacemente descritta da Orazio Costa che assistette dal vivo, dietro le quinte, alla prima di un testo del nostro maggiore drammaturgo, il quale si tirava i peli della barba e si graffiava il viso…).
Se, quindi, io ritengo positivo l’esito, non dovrei essere sospettato di… partigianeria.
La prigione inventata da Fraddosio è certamente una prigione, con tutti gli elementi topici di una prigione, le pareti, le sbarre, le porte di ferro. Ma è anche qualcos’altro, e quella torretta di letti, altra gabbia nella gabbia, su cui i due detenuti si arrampicano come scimmie, è un’immagine che, dagli occhi, passa dentro le viscere degli spettatori. Il muro è il muro sporco di una cella, che separa dal mondo, ma è anche una parete che crea una lacerazione dentro, sconnette i pensieri e, insieme, rinserra le passioni, costringendole poi a esplodere.
Così come quella sorta di “compact”, lavello-lavabo-cucina-bugliolo, diventa un totem dedicato alle funzioni fisiologiche elementari, alle quali la detenzione riduce un essere umano.
Anche il letto di Maria, luogo di piacere, diventa, con quella testiera formata da due spalliere metalliche intrecciate, un’altra gabbia, che racchiude altre passioni, pronte anch’esse a evolvere in maniera imprevedibile.
Scena, quindi, non come una chiosa, un commento, un “parerga”, secondo l’elegante espressione classica resa celebre da Schopenauer, ma come “paralipomeni”, vale a dire uno sviluppo, un proseguimento del testo, una sintesi visiva illuminante dell’azione.
È Steiner che autorevolmente sostiene che l’unica forma di interpretazione possibile è la creazione di un’opera “derivata” da quella che si vuole interpretare. Nel teatro questo è possibile se l’autore è così umile da accettare che il suo testo venga integrato, completato, dagli altri elementi dello spettacolo e se il regista, lo scenografo, il musicista, il coreografo, il datore di luci, gli attori infine, sono, a loro volta, consapevoli dell’importanza del proprio ruolo, ma anche della necessità di non prevaricare il testo del quale, in definitiva, si nutrono.
È sempre, per restare ai classici, una questione di misura, di equilibrio.
Rocco Familiari
Antonio Bernardo Fraddosio non dipinge le forme, ma le costruisce, le mette in tensione, le articola e disarticola, le intreccia. Nella sua visione creativa non domina la certezza di un dogma assoluto e monadico. Ne è invece protagonista L’idea che nella vita ogni cosa, ogni evento, ogni sentimento, sono in relazione inestricabile con mille altri, in un continuum dinamico e complesso che rifiuta la piattezza del punto di vista univoco. Così, in modi e forme molto personali, Fraddosio si ricollega a quella stagione creativa che nella seconda metà del ‘900 ha portato alcuni rigorosi artisti italiani a dare vita all’avventura dell’attraversamento e del superamento della superficie della tela, verso altre dimensioni: i primi sono stati, già dal 1950, Lucio Fontana, con il suo magistrale gesto “barocco” di tagliare e forare òa tela, per far passare di lì la luce dell’infinito e Alberto Burri con i suoi inquieti ed accigliati “Gobbi” aggettanti. Subito dopo vanno poi ricordati Enrico Castellani, con le sue estroflessioni irte di chiodi eppur volte a captare una “concretezza d’infinito” attraverso un’interazione differente e quindi Agostino Bonalumi, capace di far respirare la tela con dinamiche estroflessioni ed introflessioni che letteralmente ci portano nel “battito cardiaco” del colore, verso espansioni ambientali assai coinvolgenti. Molti altri potremmo ricordarne, fra cui Piero Manzoni, Salvatore Scarpitta, Dadamaino, Paolo Scheggi. Sono tutti protagonisti di quella che è stata definita come “pittura oggettuale” proprio perché volta a realizzare prima di tutto un oggetto a funzione estetica assolutamente autonomo dall’idea tradizionale di pittura, di composizione e di colore.
Un quadro-architettura che trasmette una nuova concezione plastica ed ambientale, elettrizzante come una scarica di energia ma ben lontana da qualsiasi sentimentalismo o da suggestioni letterarie e narrative.
Mentre però molti degli artisti prima citati erano i cultori di un azzeramento radicale di qualsiasi emozionalità pittorica, volendo con ciò superare l’accademia esistenzialista di un informale allora troppo di moda, Antonio Bernardo Fraddosio non è interessato a fare una tabula rasa troppo radicale. Sa essere per certi versi minimale, dando voce a pochi colori e a strutture essenziali ma comunque lasciando parlare l’inquietudine di una materia che dà immagine a quelle che si potrebbero chiamare “cartografie dello spirito”, fatte di avvallamenti, anfratti, dirupi, sentieri interrotti, crepacci, pendii dilavati. Fraddosio è infatti un artista che crede nell’enigma dell’immaginario e che rifiuta quella insensata proliferazione di immagini del mondo mediatico di oggi, in cui, come ha notato Jean Baudrillard, “tutte le cose, private del loro segreto e della loro illusione, sono condannate all’esistenza, all’apparenza visibile, sono condannate alla pubblicità, al far-credere, al far-vedere, far-valere. Il nostro mondo moderno è pubblicitario nella sua essenza”.
Fraddosio invita così l’osservatore ad andare al di là delle apparenze, costringendolo a superare la pura contemplazione frontale per cercare una relazione multidimensionale, guardando dentro e a fianco di ogni opera. Ed è quello che accade anche con le scene per la pièce teatrale “L’odore”, con la materializzazione visiva di indicibili ambiguità e inquietudini inesorabilmente intrecciate e inestricabili, come quella passione irrefrenabile che va al di là delle singole individualità coinvolte.
Nelle sue opere Fraddosio mette in scena la strategia della tensione fra elementi opposti e soprattutto fra concavo e convesso: in un cortocircuito continuo l’artista spinge percettivamente fuori dalla superficie dell’opera l’osservatore con le forme convesse e subito lo invita a entrare dentro con quelle concave, quasi senza soluzione di continuità ma comunque suggerendo un ritmo percettivo che deve svolgersi nel tempo senza esaurirsi nel puro e semplice colpo d’occhio.
È il tentativo di fondere le due categorie di immagini di cui ha inimitabilmente parlato Robert Musil ne “L’uomo senza qualità”: “le immagini si dividono in due grandi gruppi opposti, il primo gruppo deriva dall’essere circondati dagli eventi, e l’altro gruppo dal circondarli, questo essere dentro una cosa e guardare una cosa dal di fuori, la sensazione concava e la sensazione convessa, l’essere spaziale come l’essere oggettivo, la penetrazione e la contemplazione si ripetono in tante altre antitesi dell’esperienza e in tante loro immagini linguistiche, che è lecito supporre all’origine un’antichissima forma dualistica dell’esperienza umana”.
D’altro canto nelle opere di Fraddosio si avverte tutta l’inquietudine di una ricerca che vuole fondere l’evento fenomenico – l’hic et nunc della crescita della forma nel suo farsi – con la costruzione strutturale che mira a superare qualsiasi dimensione contingente per sfiorare, almeno, un frammento d’assoluto. In questo senso l’incidenza e l’intensità della fonte luminosa hanno un ruolo fondamentale nella fruizione percettiva delle opere di Fraddosio, alleggerendo o intensificando le ombre dei rilievi, ad esempio, e quindi mettendo in scena l’eterna lotta tra luce ed ombra.
Così la presunta assolutezza della forma si relativizza sempre in rapporto al dramma della luce e conserva, in questa sua attitudine al cambiamento, una matrice vitale.
L’opera non è mai uguale a se stessa ma varia col mutare della luce del punto di vita. Per certi versi ogni lavoro racchiude molti altri lavori che si svelano a poco a poco secondo la capacità dell’osservatore di mettersi in gioco e di avventurarsi nella scoperta. Per Fraddosio il volto dell’arte è infatti proteiforme e dinamico.
Nel dar forma alla tensione fra elementi opposti Fraddosio dà anche vita alla dialettica fra unità e varietà. Guardando da una certa distanza le sue opere si ha infatti la chiara impressione di trovarsi quasi di fronte ad un muro, ad una parete impenetrabile. Viceversa, avvicinandosi, si percepisce una pluralità di possibilità e di aperture, di ipotesi vitali e di affioramenti immaginativi. In un certo senso l’opera si dà e si nega, invitandoci ad una contemplazione attiva e vigile, non passivamente subita, concepita come un’avventura nell’ignoto. Da muro diventa porta e soglia che separa il visibile dall’invisibile, ciò che è stato disvelato dal celato. È, forse, la concretizzazione di un organismo plastico che dà immagine all’incontro tra spazio interiore e realtà esteriore, non più separati ma fusi in una nuova identità.
In queste opere la volontà costruttiva di Fraddosio si lega indubbiamente, sia pur per via più metaforica che letterale, alla sua esperienza di architetto. Ma in qualche modo sono icone architettoniche della crisi, dell’inquietudine, della tensione, della frattura spirituale che però si ricompongono sempre in un’aspirazione all’ordine e all’armonia, come avviene da tempo immemorabile per ogni buon artista italiano, per sua natura innervato dal soffio dell’equilibrio classico della forma, della sapienza manuale, del culto per l’”oggetto” ben fatto, del connubio fra sensazioni e idee.
Gabriele Simongini
Rappresentazione “Quadri danzanti per dieci tute d’acciaio” durante la mostra “Le tute e l’acciaio”
Coreografia e regia: Giulia Fabrocile e Laura Di Biagio
Musica: Francesco Carlo leone e Marco Di Biagio
Roma, mostra “Le tute e l’acciaio” di Antonio Bernardo Fraddosio presso la Galleria Comunale d’Arte Moderna
Ho conosciuto Fraddosio dapprima sulla scena teatrale. Sue infatti le scenografie di tre lavori di Rocco Familiari: al Festival dei Due Mondi di Spoleto, nel 2003, per il dramma “L’odore” (con Enrico Lo Verso), e, l’anno successivo, richiamato da Missiroli per “Amleto in prova”; al Teatro di Messina per il dramma “Agata”, da cui il regista Zanussi ha tratto la sceneggiatura per il suo film “Il sole nero”, interpretato da Valeria Golino.
È solo più tardi che ho avuto occasione di vedere anche le sculture.
Non riuscivo immediatamente a “catalogare” questi straordinari oggetti, anche se mi rendevo conto della loro specificità poetica. Una prima interpretazione mi spingeva verso Jean (Hans) Arp e il suo “Berger des nuages”, cioè verso una sorta di “art brut” che fu, fino a tempi recenti, di moda. Ma l’originalità di questo scultore, pittore, disegnatore non si lascia ridurre a facili analogie né costringere dentro abituali categorie.
Le sue “Tensioni e Torsioni” sono delle vere “compressioni esplosive”, trasformano nello stesso tempo la forma e il contenuto, se è permesso dividere queste due cose, qui unite in, e da, una strana “materia del tempo”. Entrano in gioco le varietà o le qualità dei materiali di cui l’artista si serve: ferro, legno, tela, forse pure certe specie di catrame, di carbone o cemento, di gesso anche, e di Dio sa che altro ancora…
L’opera che segnalo, per la sua esposizione nell’ambito della mostra veneziana, è la più recente di Fraddosio: “Bandiera nera dentro una gabbia sospesa”. Una struttura curvilinea, realizzata con i materiali cari all’artista, legno, cartongesso, catrame, imprigionata dentro una struttura di metallo arrugginito. È un oggetto di straordinaria potenza evocativa e simbolica, che meriterebbe di diventare l’emblema di una rassegna che rappresenta uno sforzo inaudito di imporre il senso, l’imprescindibilità, dell’arte, in un tempo e in una società che sembra invece rifiutarla.
di Predrag Matvejevic