“Classico e anticlassico in Antonio Bernardo Fraddosio”
di Sergio Rossi

L’arte occidentale è vissuta e vive ancora in buona misura del rapporto dialettico tra istinto e ragione, ispirazione e metodo, caos e ordine, classico e anticlassico, che possono poi ricondursi in ultima analisi alla filosofia aristotelica e alla sua poetica del “fare” da un lato ed alla filosofia neoplatonica ed alla sua poetica del “creare” dall’altro. Rapporto dialettico che si è di volta in volta sostanziato nei contrasti tra Rinascimento e Manierismo, Classicismo e Barocco, Positivismo e Romanticismo, Razionalismo ed espressionismo, fino al dibattito tra figurazione ed astrazione, tra realismo ed arte concettuale ancora vivo ai giorni nostri. Spesso questi rapporti dialettici sono stati, dalla storiografia delle varie epoche, personalizzati a loro volta in scontri tra grandi artisti: Raffaello e Michelangelo, Caravaggio e Annibale Carracci, Bernini e Borromini, via via fino a Picasso e Dalì, Matisse e Mondrian, Guttuso e Burri. Nel secolo appena trascorso, poi, dopo i grandi fermenti rivoluzionari che sembravano aver definitivamente decretato la “morte” dell’arte o quanto meno delle sue forme e tecniche più tradizionali, proprio nell’ultimo scorcio si è assistito a un prepotente e massiccio “ritorno all’ordine” che non è più stato vissuto come qualcosa di passatista o rétro ma al contrario ha assunto esso stesso un aspetto quasi liberatorio o addirittura provocatorio, cosicché oggi possiamo dire che dipingere una natura morta o un paesaggio è attuale così come esporre una istallazione piena di sassi o carta straccia e che un artista informale o concettuale è “moderno” quanto un iperrealista o un neomanierista.

Insomma si può dire che oggi, finalmente, non contano più le etichette o gli “ismi” ma piuttosto la qualità della produzione estetica, ed ecco allora che un artista poliedrico e difficilmente inquadrabile in uno schema predefinito come Fraddosio può essere giudicato e apprezzato proprio per l’indubbio fascino delle sue opere. Ma attenzione, essere senza etichettature non significa essere avulso o isolato da quanto si è prodotto finora, tutt’altro; significa piuttosto vivere determinate tradizioni e d esperienze passate come stimoli e non come camicie di forza. Così, come molto opportunamente ha osservato Gabriele Simongini “in modi e forme molto personali Fraddosio si ricollega a quella stagione creativa che nella seconda metà del Novecento ha portato alcuni rigorosi artisti italiani a dare vita all’avventura dell’attraversamento e del superamento della superficie della tela verso altre dimensioni” e qui vengono citati Fontana e Burri, Castellani e Manzoni, Bonalumi e Dadamaino: “Mentre però – continua Simongini – molti degli artisti prima citati erano i cultori di un azzeramento radicale di qualsiasi emozionalità pittorica… Fraddosio non è interessato a fare una tabula rasa troppo radicale. Sa essere per certi versi minimale, dando voce a pochi colori e a strutture essenziali, ma comunque lasciando parlare l’inquietudine di una materia che dà immagine a quelle che si potrebbero chiamare “cartografie dello spirito”, fatte di avvallamenti, anfratti, dirupi, sentieri interrotti, crepacci, pendii dilavati”.

Del resto Fraddosio è un architetto, conosce come pochi i risvolti più segreti della materia, sia essa legno, pietra, cartone, cemento, sa quale ordine interno si celi dietro il caos apparente o al contrario come la più classica delle strutture nasconda in sé abissi di ignoto. Proprio dopo aver meditato sulle opere del nostro artista mi è capitato di passare davanti al Pantheon, il più “classico” dei monumenti esistenti al mondo, anzi l’essenza stessa della “classicità” e di notare per la prima volta tra quei marmi e quelle pietre, fessure, sbrecciature che si sono aperte ai miei occhi come voragini improvvise, romantiche percussioni di infinito che mi hanno fatto amare ancor di più quel monumento già da me tanto amato e me ne hanno fatto apprezzare ancor di più la modernità sconvolgente e assoluta. E allora ho compreso come questo retaggio classico che ogni artista italiano (e parlo ovviamente di artisti veri) porta con sé ne rappresenti la differenza rispetto a pur sommi artisti stranieri. Nel caos disperato di Pollock c’è la ribellione tangibile verso una civiltà metropolitana sempre più frenetica e consumistica ma non c’è, ovviamente, nessuna ombra di ordine o di retaggi del passato; nell’apparente informe casualità dei cretti di Burri vi è invece tutto il rigore concettuale della tradizione storica italiana, cui anche Fraddosio, a suo modo, è molto sensibile.

Tra le opere di Fraddosio quella che meglio di altre può riassumerne la poetica è forse Tensioni, in legno, stucco e catrame, del 2000, magistralmente descritta da Rocco Familiari: “La parete è qualcosa che divide o, al contrario, racchiude, che separa o, invece, riunisce. Taglia lo spazio e lo raccoglie. Sembra poter conciliare gli opposti. Può essere sottile quanto un foglio di pergamena, come nelle case giapponesi, o possente, come nelle costruzioni medievali. Piegarsi ad arco, dispiegarsi come una vela e sostenere le svettanti cupole delle cattedrali.

Quello che non può fare, non ha mai fatto, è esistere per sé. Inimmaginabile una parete senza una struttura da sostenere, uno spazio da dividere o da rinserrare, uomini da separare o da proteggere. Questa che l’autore, Antonio Bernardo Fraddosio ha voluto intitolare “Tensioni” lo è. Una parete che racchiude in se stessa lo spazio, che resiste, invece, si contrae, si addensa, si raggruma, si espande per esplodere poi laddove trova un’incrinatura, un varco… una Parete-totem, di fronte alla quale diventa inutile porsi la domanda di cosa nasconda, da che cosa ci separi, una parete specchio, che riflette le nostre inquietudini e ci restituisce l’immagine delle nostre deformità, quelle che tentiamo di celare agli altri, diventando noi stessi una invalicabile parete”.

Ancora un “quadro-parete” è Alterazioni del ’98, che si sviluppa tutto in senso orizzontale e riassume in sé ordine e casualità, classico e anticlassico, rigore e improvvisazione, mentre Lesione, sempre del ’98, tutto incentrato sul contrasto del bianco dello stucco e del bruno del legno, vive di interne tensioni, così come Macrolesioni del 2000, con la sua superficie lacerata e piena di fratture. In Dilavamento dell’anno successivo il colore diviene protagonista, con quella colata di arancio che si fa strada quasi a fatica tra il grigio della materia circostante. In Arianna sempre del 2001, un filo sottile si dipana lungo la superficie bianca lasciando impercettibili tracce di sé e recuperando una piena valenza pittorica che diventa quasi esuberantemente barocca in Legature . Mentre la sua esperienza di scenografo emerge in tutta la sua creatività in Torsioni del 2003, con quella grata che fa capolino tra la cascata bianca di stucchi e carta, sbarra di prigione o retaggio neoplatonico che ci riporta fino al Verrocchio e al suo sublime monumento funebre a Piero e Giovanni de’ Medici in San Lorenzo a Firenze.

La materia, in Fraddosio diventa sempre più intercambiabile e d allora ecco un lamierino in ferro piegarsi e avvolgersi come carta da pacco in Lamiera del 2004, o il legno e il cartone assumere quasi la morbidezza di una stoffa in Permeazioni dello stesso anno. In Compressioni su monolite del 2005 tutta la poetica precedente viene riassunta in queste due pareti in sé autosufficienti che però al contempo si attraggono, si respingono, dialogano e si ignorano, specchio di sé, ma anche un po’ di noi stessi, come osservava appunto Familiari.
Il tema del paesaggio urbano, memore dell’informale di Mimmo Rotella e dei suoi cartelloni

pubblicitari strappati e ricomposti in un nuovo (dis)ordine affiora ad esempio in Stratificazioni urbane, o in Dislocazione sempre del 2005, fino al drammatico Ruderi metropolitani del 2006, struttura in costruzione lasciata incompiuta o piuttosto residuo di qualche edificio distrutto? E bisogna dire che l’arte di Fraddosio assume in queste sue ultimissime prove toni sempre più concitati e angosciati, come anche i titoli delle sue opere testimoniano: Scissura, Sfibramento, Vortice, Lacerazione. Ma come in Burri o in Fontana l’apparente caos della materia trova un riscatto proprio nella bellezza dell’arte che riesce a sublimare anche il più informe groviglio trasformandolo in un bellissimo principe, quasi Materia al limite, come recita una delle sue composizioni più recenti.

 

Sergio Rossi