commenti critici

“… I semi che abbiamo seminato in Burkina e nel mondo sono qui. Nessuno potrà mai estirparli. Germoglieranno e daranno frutti.
Se mi ammazzano arriveranno migliaia di nuovi Sankara…

(Thomas Sankara – Dal Discorso sul debito, Organizzazione per l’Unità Africana, Addis Abeba, 29 luglio 1987)

 

Il 15 ottobre del 1987 veniva ucciso Thomas Sankara, il presidente del Burkina Faso, leader carismatico la cui prematura scomparsa, all’età di 37 anni, ha cambiato il destino dell’Africa incidendo pesantemente sui ritardi di una crescita economica e democratica dell’intero continente. Eppure grazie alla lungimiranza e alla forza trascinatrice di questo rivoluzionario presidente, per quattro anni, a partire dal 1983, il Burkina Faso, “la terra degli uomini integri” – paese nato dall’Alto Volta, colonia alla quale la Francia concesse l’indipendenza formale nel 1960 – visse una rinascita senza precedenti.

Sankara ebbe “il coraggio di inventare il futuro” per il suo paese definito come “un concentrato di tutte le disgrazie del mondo” e lo dimostrò adoperandosi per affrancare il popolo africano dalla morsa del colonialismo e soprattutto dalla nuova e persuasiva forma di schiavitù finanziaria, quella del debito. Egli intuì che bisognava riprendere le redini del continente con le proprie forze e liberarsi da certe tradizioni obsolete; iniziò cambiando il nome di Alto Volta, retaggio del periodo coloniale, in Burkina Faso e  si impegnò per eliminare la povertà  attraverso il taglio degli sprechi statali e la soppressione dei privilegi delle classi agiate; finanziò un ampio sistema di riforme sociali incentrato sulla costruzione di scuole, ospedali e case per la popolazione in estrema povertà; diede avvio a programmi per la promozione dello sport e l’ampliamento della rete dei trasporti pubblici, oltre a condurre un’ importante lotta alla desertificazione con il piantamento di dieci milioni di alberi per il rimboschimento del Sahel.

Il programma politico di Sankara ebbe inoltre a cuore il miglioramento delle condizioni delle donne poiché egli sosteneva che “la rivoluzione e la liberazione delle donne vanno di pari passo”. Un’ idea molto evoluta questa di Sankara che fa coincidere la lotta per i diritti sociali con quella per i diritti civili poiché imprescindibili gli uni dagli altri. L’emancipazione delle donne, inoltre, non era un “atto di carità o di compassione umana”. Si trattava di “…una necessità alla base della rivoluzione. Le donne reggono l’altra metà del cielo”.  Inserì così le donne nella vita politica e militare del paese addirittura incoraggiandole a ribellarsi al maschilismo imperante.

Ma il vero grande coraggio, Sankara lo dimostrò da subito, quando si rifiutò di saldare gli assurdi debiti pretesi dagli ex coloni (“…che non moriranno se non ripagheremo il debito, mentre il nostro popolo si”), suggerendo di istituire un nuovo fronte economico africano da contrapporre a quello europeo e statunitense al fine di rendere il paese autosufficiente e libero da importazioni forzate. Incentivare la produzione e l’economia locale significava porre fine alla schiavitù economica dell’Occidente. Per questo sosteneva nei suoi discorsi “bisogna produrre, produrre di più perché è normale che chi vi dà da mangiare vi detti anche le sue volontà”.

Divenuto personaggio scomodo, troppo scomodo, soprattutto per il piano egemonico mondiale messo in atto dai poteri finanziari internazionali attraverso lo strumento del debito, “il presidente ribelle” fu ucciso dal suo collaboratore nonché successore Blaise Compaoré, verosimilmente appoggiato da potenze occidentali.

La figura di Thomas Sankara, nato nell’Alto Volta e morto nel Burkina Faso, che indicò la strada verso il progresso al suo popolo e non solo, poichè …”D’altro canto le masse popolari europee non sono opposte a quelle africane anzi, quelli che vogliono sfruttare l’Africa sono gli stessi che sfruttano l’Europa. Abbiamo un nemico comune…”, ha ispirato ad Antonio Bernardo Fraddosio un’originale opera che l’artista definisce “di collegamento” tra i due cicli “Salvarsi dal naufragio” e “Quello che resta dello sviluppo”.

La produzione artistica di Fraddosio negli ultimi venti anni si svolge come un grande componimento senza finale dove i cicli rappresentano capitoli che trattano temi universali e le opere rappresentano pagine. I diversi cicli si sovrappongono attraverso alcuni lavori che, come in questo caso, fanno da raccordo e concorrono alla costruzione del “filo rosso” del grande componimento. Sono opere attente al contenuto, perché, scrive Fraddosio: “l’artista non si può accontentare di presentare come opere d’arte le proprie sperimentazioni formali, gli effetti di un evento o di una condizione esistenziale personale…In questo momento storico l’arte deve fare essa stessa politica, mettere contenuto nelle opere e non solo. Gli artisti devono mettere la politica, nella sua accezione più alta, nel loro lavoro. Tutta la produzione artistica che non si ispira a questo principio, per me fondamentale, è ormai da considerarsi stantia, ridotta a mera decorazione, a orribile operazione finanziaria gestita da ricchi per i ricchi”.

Il ciclo “Salvarsi dal naufragio”, come scrive lo stesso artista, è legato “al tema del grande esodo o, meglio, deportazione dei popoli del sud del mondo verso il nord”. L’opera centrale del ciclo, “L’isola nera 2013 annus horribilis”, presente nelle collezioni del MACRO di Roma, nasce da un drammatico episodio che accadde nell’ottobre del 2013 quando, al largo di Lampedusa, a seguito di un naufragio, morirono 388 migranti. Si tratta di un polittico costituito da dodici formelle che rappresentano i dodici mesi dell’anno 2013. Per realizzarle, l’artista si pone nella posizione visiva del migrante paradossalmente consapevole che quel grumo nero, l’isola, che rappresenta per lui una speranza, è in realtà esso stesso un barcone nella tempesta. Le formelle recano dei sottotitoli composti dal mese, anno, numero degli sbarcati e numero di morti. L’artista rileva che nel gennaio 2013 sono sbarcate appena 227 persone, nove mesi dopo, il numero sale a 9200; come è possibile che all’epoca, nessun governo si rese conto che dietro quei numeri si nascondeva la drammatica realtà, ormai inarrestabile, del fenomeno migratorio? Scrive Fraddosio: “A me parve chiaro che quello che all’inizio sembrò essere l’esodo di disperati che fuggivano da guerre e fame, stava diventando una vera deportazione di massa…In un mondo ormai globalizzato dal nuovo capitalismo che concentra sempre più le ricchezze nelle mani di pochi, era necessario globalizzare anche la forza lavoro” Con queste parole l’artista esprime il suo pensiero sull’evoluzione apocalittica di certi eventi e fenomeni inizialmente sottovalutati da tutti, soprattutto dai cosiddetti poteri forti, proprio quelli che hanno poi dato una spinta determinante a scatenarli.

In continuità con “Salvarsi dal naufragio” nasce il ciclo successivo “Quello che resta dello sviluppo” che vede nell’installazione “Le tute e l’acciaio” la sua opera più rappresentativa.

Dieci “tute di ferro”, dieci cassoni in acciaio ossidato, al cui interno alloggiano altrettante lamiere modellate come panneggi metallici, lacerate, incendiate. Le tute sono quelle indossate dagli operai degli stabilimenti siderurgici ex Ilva, oggi Arcelormittal Italia, per “difendersi” dai tumori provocati dalle polveri letali.

L’installazione, che è stata esposta da novembre 2018 a maggio 2019 presso la GAM di Roma nell’ambito della mostra “Antonio Fraddosio. Le tute e l’acciaio”, costituisce quindi un potente tributo alla tragedia dimenticata dell’ex Ilva di Taranto e alle sue vittime.

Quello che doveva essere un esempio di crescita, di benessere, di progresso si era trasformato in un assurdo strumento di morte e distruzione. A Taranto, la più grande acciaieria d’Europa non ha mai smesso nel tempo di provocare morti tra operai, cittadini e bambini a causa dei gravi effetti dell’inquinamento e del degrado ambientale.

Come è possibile che i progressi realizzati dall’uomo negli ultimi duecento anni si risolvano in questo terribile scenario di autodistruzione? E’ lo stesso artista a fornirci una risposta: “Semplicemente perché non si trattava di reale progresso bensì solo di sviluppo di tecnologie. Lo sviluppo non è sinonimo di progresso, ma come affermava Pier Paolo Pasolini, spesso ne rappresentava l’opposto. Il primo mette al centro le tecnologie, il secondo l’uomo e il suo pensiero”. Quindi, se lo sviluppo non è accompagnato da una adeguata crescita di pensiero, produce inevitabilmente danni e il degrado ambientale è opera del modo in cui si evolve lo sviluppo globale.

La sistematica distruzione dell’ambiente e dell’uomo è realizzata attraverso una precisa e attenta strategia tesa solo al raggiungimento dei massimi profitti economici in tempi rapidi all’interno di un sistema economico-finanziario globalizzato in cui l’uomo, prigioniero delle lobbies di potere, è costretto sempre più ad una condizione di servilismo.

Un artista impegnato e “militante” come Antonio Fraddosio rimane affascinato dalla figura dell’eroe rivoluzionario burkinabè Thomas Sankara, profeta della libertà e della giustizia, che, con fiducia e coraggio, si era schierato a parole e nei fatti dalla parte degli oppressi, del mondo rurale, delle donne; persino degli alberi.

Ed è proprio un albero che ha ispirato lo scultore per l’opera che, nella versione definitiva, sarà realizzata a grandezza naturale, in lamiera di ferro incendiata e collocata all’aperto.

Il Sankara di Fraddosio è un albero, quasi sradicato, inaridito dall’incuria dell’uomo e dall’ostilità del clima che si piega ad arco, si allunga, quasi si spezza fino a toccare terra con i suoi rami. Quei rami secchi, accennano ad un corpo, (quello di Sankara), con le braccia protese verso la terra. Da quel corpo, apparentemente senza vita, da quelle braccia-rami, che si infilano nella terra arida africana, come per margotta, nasce una nuova pianta collegata alla pianta madre.

L’”albero-Sankara” ricorda la Dafne berniniana a cui è legato dal tema della metamorfosi.

Nel gruppo scultoreo berniniano, nel momento di massima tensione drammatica, Apollo afferra Dafne nell’istante in cui è iniziata la trasformazione del suo corpo in pianta di alloro.

Nell’opera di Fraddosio invece il passaggio di forma avviene in senso inverso e doppio: una pianta morente si trasforma in un essere umano e nelle sue idee di rinascita e attraverso le sue braccia-rami darà origine ad una nuova pianta.

E’ inoltre forte il richiamo nell’opera sia al tema della ciclicità, del passaggio morte-vita presente già in lavori precedenti dell’artista come “Mater Matuta”, sia al messaggio di speranza della “Venere di Palestina”, anche questa opera di collegamento, dove il corpo di donna, avvolto in un sudario di lamiera contorta che le copre il volto e le trafigge il ventre, emana una forte sensualità a significare “disperata vitalità”.

Le opere di Fraddosio possono essere definite – come ha detto lo scrittore e drammaturgo  Rocco Familiari –  dei veri e propri “ racconti” per le sensazioni che rappresentano e suggeriscono; anche questa  va osservata attentamente da varie prospettive, lontano, intorno, attraverso ma anche molto da vicino per scoprirne alcuni dettagli dalla forte valenza simbolica come l “ombelico-vulva” che l’artista  realizza sul corpo – albero, al centro dell’addome, la cui immagine vivificatrice è rafforzata dalla presenza dell’organo sessuale maschile che si intravede subito sotto.

L’ombelico è il centro della vita, il centro generatore per eccellenza, attraversato da tutti i flussi vitali, compresi quelli che alimentano il feto, che nasce dalla vulva. L’artista torna ai temi della fecondità, della riproduzione, della rinascita e della vita che, non a caso, ben si legano alla figura della donna tanto cara a Sankara che aveva fatto dell’emancipazione femminile uno dei punti cardine del suo programma politico.

L”’albero-Sankara” parte dalla terra e torna verso la terra formando un grande arco che dà il titolo all’opera e che polemicamente richiama “Le Grande Arche de la Fraternité” di Parigi conosciuto anche con il nome di “Grande Arche de la Défense”.

Nel 1983, anno in cui Sankara divenne presidente, a Parigi iniziarono i lavori per la costruzione del “Grande Arche de la Fraternité”, concepito come una versione del XX secolo dell’Arco di Trionfo dell’Etoile, perché fosse un monumento consacrato all’umanità e agli ideali umanitari piuttosto che alle vittorie militari. Fu il presidente francese Françoise Mitterand che commissionò il monumento al fine di prolungare l’asse storico di Parigi, la cosiddetta via Trionfale, costituita da un insieme di edifici, monumenti e strade che si estendono verso Ovest a partire dal centro, dal cortile del Louvre al Grande Arche de la Défense, appunto, nel distretto Paris La Défense, nel dipartimento degli Hauts-de-Seine.

L’arco fu inaugurato nel 1989, due anni dopo l’assassinio di Sankara, nel bicentenario della Rivoluzione francese.

Oggi il “Grande Arco della Fraternità”, ubicato nel quartiere degli affari più grande d’Europa, La Défense, caratterizzato dalla presenza massiccia di centri commerciali, grattacieli ed uffici, strutture dedicate alle aziende e al business, spicca per la particolarità della sua forma pressoché cubica ricoperta di marmo bianco di Carrara, granito e vetro e ospita al suo interno uffici governativi ed un centro congressi ed esposizioni.  Ecco come il mondo ricco, in particolare l’Occidente, ha concepito gli ideali di libertà, uguaglianza, fratellanza fra gli uomini; quello stesso mondo che nel 1987 ha ucciso Sankara e dopo due anni ha voluto celebrare la prima vera “Rivoluzione” nella storia, quella del 1789, con un monumento consacrato agli ideali umanitari nel cuore del business della capitale francese.

Fraddosio, nel cogliere questa forte contraddizione e forse nel tentativo di superarla attraverso l’arte attribuisce al suo “Grande Arco” un significato originale. Egli trascende la sua definizione di elemento strutturale in architettura per renderlo un luogo di “attraversamento simbolico”. Mediante l’arco, l’opera comunica con lo spazio circostante e attiva misteriosamente percezioni nascoste all’osservatore che lo attraversa e che riesce a sentire e appunto percepire maggiormente il messaggio dell’opera.

In epoca romana il passaggio sotto l’arco di Trionfo aveva un significato ben preciso per il condottiero: la memoria delle vittorie militari ma allo stesso tempo un cambiamento di stato, il ritorno ad una condizione di normalità dopo la guerra, una sorta di purificazione, un ritorno all’innocenza e alla pietas dopo le uccisioni e le stragi compiute.

Allo stesso modo attraversare “Le Grande Arche” di Fraddosio significa effettuare un atto simbolico, una sorta di purificazione, di rinnovamento individuale e universale, ma nel contempo significa dare risalto al valore della memoria, per non dimenticare l’uomo Sankara e soprattutto le sue idee di rinascita che in qualche modo avrebbero cambiato il mondo ma che comunque non sono state vane. Inoltre, attraversare l’arco significa tornare a riflettere sul tema della ciclicità della vita tanto caro all’artista: l’arco parte da terra con le radici che muoiono e torna a terra con la nuova pianta che cresce.

L’opera, quale studio preparatorio in scala ridotta per il monumentale “Grande Arche”, costituisce una fase dell’originale processo creativo dell’artista, che trova nel disegno la sua prima funzione ideativa.

Gli interessanti schizzi per l’opera eseguiti a china non sono soltanto studi grafici dell’idea ma “rappresentazioni emotive”, come lui stesso li definisce, poiché in essi “l’artista-architetto” intuisce già la tridimensionalità dell’immagine, il suo sviluppo nello spazio.

Questo modello in scala ridotta che segue appunto lo studio grafico non ha più nulla di improvvisato, è già un’opera a sé stante, dotata di una propria autonomia e di completezza artistica che “l’artista-architetto” realizza con materiali di recupero, di cantiere, di cui ben conosce il valore espressivo, le potenzialità tecniche ed i risvolti segreti.

La struttura interna dell’albero-arco è costituita da un’armatura di ferro dolce che l’artista piega e adatta all’andatura della forma secondo la sua visione estetica. La struttura viene avvolta da canapa e tela di juta precedentemente impregnati di un impasto di stucco, cemento e gesso che creano sulla superficie affioramenti di materia modellati con le mani dall’artista per dar loro una qualità estetica.

Questi semplici materiali sono magistralmente plasmati dall’artista per ottenere l’effetto materico del legno dell’albero e la straordinaria fedeltà mimetica del tronco nodoso e possente, con i suoi profondi anfratti che ricorda gli alberi secolari del Burkina Faso.

La composizione, fissata su un carrello, poggia su una base cosparsa di polvere di ferro e pozzolana, materiali utilizzati per replicare la terra rossa africana.

Con questa opera Fraddosio dimostra ancora una volta di essere un artista-intellettuale politico, che utilizza il lavoro artistico per raccontare la verità, per rappresentare la realtà e condannare un potere di cui siamo tutti prigionieri. L’arte non è autoreferenziale. L’arte può essere un mezzo di cambiamento.

Del resto, Fraddosio ama ripetere le parole di Picasso: “Che cosa credete che sia l’artista un imbecille che ha solo gli occhi, se è un pittore… no, egli è anche un uomo politico, costantemente sveglio davanti ai laceranti, ardenti o dolci avvenimenti del mondo… La pittura non è fatta per decorare gli appartamenti. È uno strumento di una guerra offensiva e difensiva contro il nemico”. L’arte in generale è quindi una guerra che va combattuta con i propri strumenti, con il proprio linguaggio anche se indiretto, evocativo, ed in questo risiede la sua forza sovversiva: nell’opposizione ad uno status quo e nella costruzione di una realtà alternativa.

Da qui l’aforisma di T.W. Adorno: “ogni opera d’arte è intrinsecamente rivoluzionaria”.

In alcune recenti interviste, l’artista, ha spesso citato le parole del poeta italo-new-yorkese Lawrence Ferlinghetti, poeta di spicco della beat generation, recentemente scomparso, che, nella raccolta intitolata “Poesia come arte che insorge” (2009), a proposito della sua idea di poesia, scrive:

Ci sono tre tipi di poesia. La poesia supina accetta lo status quo. La poesia seduta scritta dal sistema seduto ha una verità dettata dal suo lavoro di giorno. La poesia in piedi è la poesia dell’impegno, a volte grande, a volte terrificante.

L’idea di poesia come braccio della lotta di classe disturba il sonno di coloro che non vogliono essere disturbati nella ricerca della felicità.

Il poeta per definizione è portatore di Eros e amore e libertà e quindi nemico naturale non violento dello Stato.

È ultima Resistenza.

Il poeta è un barbaro sovversivo alle soglie della città che sfida costantemente il nostro status quo”.

Secondo l’artista l’idea di poesia di Ferlinghetti può essere traslata a tutte le altre forme di arte. Parole e immagini sono chiamate a condividere gli stessi spazi e a veicolare, ove possibile, lo stesso messaggio. Linguaggio artistico e parole corrono parallele si compenetrano nel senso, uniscono le proprie forze espressive e linguistiche per raggiungere il lettore/osservatore.

Gli artisti militanti alternano l’impegno socio-politico a lirismo puro cosi come l’esigenza di condannare le storture di questo mondo ferito e sofferente si alterna alla volontà di affermare speranza e possibilità di riscatto.

Quella di Fraddosio, artista “barbaro sovversivo” è quindi l’Arte “in piedi” di Ferlinghetti, un’arte di grande impegno che manifesta la propria forza politica, “che sfida costantemente lo status quo” attraverso la forma e la felicità espressiva.

Scrive ancora Ferlinghetti: “Se vuoi essere un poeta, crea opere capaci di rispondere alla sfida dei tempi apocalittici, anche se questo significa sembrare apocalittico”.

Nel “poeta-apocalittico” di Ferlinghetti c’è tutto Antonio Fraddosio ed il suo lavoro artistico.

                                                                                                                                                                                                    

Floriana Carosi

“Così a un’ora fissa Matuta soffonde con la rosea luce dell’aurora le rive dell’etere e spande la luce… E’ fama che dalle alte vette dell’Ita si assista a questi fuochi sparsi quando sorge la luce, poi al loro riunirsi come in un unico globo, formando il disco del sole e della luna…”   Da De rerum Natura – Lucrezio

La storia dell’uomo è un concatenarsi di eventi spesso apparentemente distanti. Così, lavorando ad un ciclo, nascono opere che anticipano il ciclo seguente. Con queste parole, lo scultore, Antonio Fraddosio, spiega il “filo rosso” che lega, negli ultimi venti anni, ogni ciclo di opere e ogni opera realizzata. Attraverso alcuni lavori, i cicli si sovrappongono, hanno un inizio ma non una chiusura poiché trattano temi universali. Sono capitoli senza finale di un grande componimento, anch’esso senza finale.

Il breve termine governa il mondo segue e nasce dal precedente ciclo di opere Quel che resta dello sviluppo.

Lo sviluppo, spiega l’artista, non è sinonimo di progresso ma, come affermava Pier Paolo Pasolini, spesso ne rappresenta l’opposto. Il primo mette al centro le tecnologie, il secondo l’uomo e il suo pensiero.

Il degrado ambientale è una delle conseguenze dell’evoluzione dello sviluppo globale.

L’ultima opera di Fraddosio, l’installazione dal titolo Le tute e l’acciaio dedicata al grave problema ambientale sorto intorno all’Ilva di Taranto, rappresenta un atto politico di reazione dell’artista ad un sistema economico-finanziario di tipo liberista, sempre più globalizzato all’interno del quale tutto viene realizzato secondo una precisa e attenta strategia tesa solo al raggiungimento dei massimi profitti economici e dove l’uomo è costretto sempre più ad una condizione di servilismo.

La causa di tutto ciò è quella che Fraddosio definisce la visione a breve termine del mondo ovvero l’eccessiva attenzione da parte dei Governi ai risultati conseguiti a breve termine a scapito di quelli che si conseguiranno soltanto nel lungo. Tipico esempio è l’assillante preoccupazione delle imprese di perseguire profitti immediati sacrificando obiettivi strategici di più lungo corso e la creazione di un valore di più ampio respiro sociale.

In questo tempo l’uomo è sempre più ripiegato sull’oggi, su traguardi ravvicinati nel tempo; di qui la necessità di tornare ad occuparsi del futuro a lungo termine, delle generazioni che verranno e del rispetto delle loro vitali esigenze, assicurando meccanismi di sviluppo sostenibile nel tempo e obiettivi articolati su archi temporali estesi.

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Per la realizzazione delle opere del nuovo ciclo, di cui Mater Matuta fa parte, Fraddosio sceglie materiali che si oppongono concettualmente al “breve termine”; sono materiali che vengono da un passato lontano e continueranno ad esistere nel lontano futuro, nel “lungo termine”; sono i materiali classici della storia antica: marmo di Carrara, pietra, bronzo e, per la prima volta nella sua produzione artistica, compare la ceramica lavorata con tecniche antiche.

Non è la prima volta che l’artista si confronta con l’immagine-simbolo della Mater Matuta. Nel 2017, per il ciclo Salvarsi dal naufragio, aveva realizzato in legno e catrame l’opera Mater negra. Mater Matuta, concentrandosi sul ventre gonfio di una donna di colore, in gravidanza, divenuta emblema dell’Africa quale culla dell’Umanità.

Ma è in questa opera in marmo che l’artista, in linea con il significato universale della Mater Matuta ha tradotto in termini plastici la complessa simbologia della dea arricchendola di originali contenuti personali.

Chi è Mater Matuta?
Il culto della Gran Madre affonda le sue radici in epoche lontane, preistoriche ed è tipica della realtà mediterranea. La Mater Matuta, in particolare, ne sarebbe una singolare variante di origine Italica, entrata poi a far parte del mondo romano; nella mitologia a Roma, la Mater Matuta era la dea del Mattino o dell’Aurora, la prima luce che abbraccia la Terra e allontana le tenebre ed il buio della notte, la madre dell’inizio di un nuovo giorno, della vita, ed in senso più stretto della fecondità e della nascita. A lei era dedicato un tempio nel Foro Boario, nell’odierna area di sant’Omobono e la sua festa (Matralia) veniva celebrata l’11 giugno. Numerosi esemplari di Matres che coprono un periodo dal VI al I secolo a.C. sono conservati nel Museo Campano di Capua. Si tratta di statue in tufo raffiguranti donne sedute su troni con bimbi in fasce sulle braccia, in atto di offerta alla dea Matuta, tutrice della maternità e della fecondità.

Ma il culto della Dea Madre ed il mistero della procreazione come evento prodigioso ad essa legata risale a tempi molto più antichi, addirittura al Paleolitico se si interpretano in tal senso le Veneri “steatopigie” della cui figura femminile stilizzata sono messi in risalto, nella loro smisurata evidenza, il ventre, i seni e le natiche.

La Mater Matuta è anche la più antica prefigurazione dell’iconografia mariana del Cristianesimo.

La più antica scena di parto conosciuta nell’arte europea, risalente a 2.600 anni fa, raffigura una donna –madre di profilo con il braccio alzato, ginocchio sollevato e una lunga treccia sulla spalla dal cui corpo fuoriescono la testa e le spalle di un bambino.

La scena è rappresentata su un frammento di recipiente in bucchero, rinvenuto nel sito archeologico etrusco di Poggio Colla in provincia di Firenze.

All’aspetto della sacralità della nascita sono anche correlate le rappresentazioni di parto conservate in vari bassorilievi di epoca romana.

Una scena di parto dall’alta valenza simbolica, risalente al XVII secolo, da considerarsi unica nel panorama scultoreo sacro, chiude questo brevissimo excursus storico e, pur nella sua diversità, ben ci introduce all’opera di Antonio Fraddosio.

La scena è rappresentata sulle otto facciate dei quattro basamenti su cui poggiano le colonne dell’altare del Bernini in San Pietro. Tra lo stemma di Urbano VIII Barberini che commissionò l’opera e le chiavi di San Pietro, Bernini ha rappresentato una testa di donna, la cui espressione in progressivo mutamento indica le varie fasi di un parto: il volto femminile inizialmente si contrae per le prime doglie, quindi gli occhi si stravolgono, i capelli sono scompigliati, la bocca da socchiusa si apre in un urlo. Nell’ottavo e ultimo stemma la testa di donna è sostituita da quella allegra e paffuta di un bambino, a significare che il travaglio si è concluso felicemente con la nascita di una nuova vita.

Bernini ha raffigurato le fasi del parto concentrandosi sull’espressione del volto della donna-madre che, addirittura, alla fine della sequenza, si tramuta nel volto del bambino-figlio.

Anche Fraddosio realizza una scena di parto, ma ben diverso è il percorso visivo e concettuale rispetto all’opera di Bernini.

Mater Matuta è l’immagine di un corpo femminile, in realtà di esso solo il tronco, con il ventre misteriosamente gonfio, nell’atto di dare alla luce un figlio del quale si intravede una zona ben levigata del viso e una parte ancora imprigionata nella pietra informe insieme al corpo della madre. L’opera richiama il significato universale della dea primordiale legato alla maternità, alla nascita, divenendone però solo un aspetto. Nell’opera di Fraddosio, infatti, il momento della nascita convive con quello della morte: una parte del corpo giovane e vitale della donna con il ventre gonfio convive con l’altro, ormai sfiorito e decadente per la maturità, addirittura decomposto nella morte. Artefice della trasformazione è il tempo che trascorre inesorabilmente e visibilmente sul corpo della donna – madre; è il tempo della gestazione…. ma è, soprattutto, il tempo della vita…

Così, scrive Michele Ainis, costituzionalista e scrittore, a proposito di questo duplice aspetto ricorrente nell’opera dell’artista: “E’ la cifra distintiva di Fraddosio, la sua capacità d’imprimere una forma allo sformarsi, alla dissoluzione delle cose…L’elemento unificante delle sue costruzioni risiede perciò in una decostruzione, in una destrutturazione. La struttura è il reale, per come si manifesta al nostro sguardo: una superficie levigata, con un ordine che attinge dalla razionalità dell’intelletto. Però al di sotto pulsa un braciere d’istinti e di emozioni, e c’è in ultimo la morte, prima e dopo ogni esistenza”.

L’artista realizza questi passaggi attraverso il processo scultoreo le cui fasi sono completamente opposte a quelle del processo della vita.

Nella scultura classica, dalla massa informe della materia si arriva alla contemplata serenità della pura forma; nell’opera di Fraddosio, la materia levigata, rifinita e lucidata di un lato del corpo florido della donna – madre, materia levigata foriera di nascita, di vita, come una parte della testa del bambino che preannuncia la certezza di un domani, si trasforma in materia grezza, corrotta, nell’altro lato del corpo che, sotto i colpi della gradina, arriva a decomporsi evidenziando addirittura delle “assenze”. Le “assenze della materia” in Fraddosio non corrispondono al “non finito” michelangiolesco, piuttosto rappresentano un atto concettuale attraverso il quale l’artista sottolinea maggiormente la dissoluzione operata dal tempo.

Ma non è solo l’arte concettuale ad essere qui richiamata. Fraddosio infatti utilizza diversi linguaggi artistici: classico, nella materia levigata per rendere il senso della floridezza e della vita, espressionista, nella materia grezza, corrotta della vecchiaia e della decadenza fino all’informale in quel passaggio tra il blocco di pietra e la forma che comincia ad affiorare per poi tornare alla materia informe.

Per quanto concerne il procedimento scultoreo, l’artista si serve di tecniche tradizionali manuali della lavorazione della pietra che vengono da un passato lontano come la pietra che foggia utilizzando strumenti artigianali: scalpello, gradina, martello, punte, raspe, ecc… Il significato e il valore della manualità dell’artista-scultore è accentuato dai suoi interventi perfettamente leggibili sul marmo: dalla materia classicamente rifinita con carteggiatura e lucidatura con polveri e acidi e polveri abrasive, ai segni espressivi della gradina, alla materia più grossolanamente sbozzata con lo scapezzatore, più dettagliata con lo scalpello…

Dell’opera non esistono modelli preparatori in creta ma solo alcuni disegni; si tratta di una scultura diretta, d’azione, dove progetto ed esecuzione costituiscono un unico atto che ha richiesto grande impegno mentale e fisico da parte dell’artista. Per questo Mater matuta è essa stessa il risultato di un “parto”: quello dello scultore che con forza ed impeto ha plasmato ciò che aveva nel più profondo del suo animo, giù nelle viscere e, quando tutto è finito, ha osservato la sua creazione lì, ferma, che all’unisono respirava insieme a lui.

 

Floriana Carosi

«Un uomo. Tutto quello che è successo è stata colpa di un uomo».
Jonathan Lethem, Il giardino dei dissidenti, 2014

 

La materia si flette e avvolge su sé stessa, come se fosse stoffa, fingendo anche la pelle ma non è pelle ringraziando Dio e non è stoffa. É materia, lamiera d’acciaio modellata, trasformata dalla mano dell’uomo in un panneggio antropomorfo.
Non ci sono mai stati uomini dentro le tute d’acciaio flesse da Fraddosio, ma ci sono uomini che utilizzano tute simili, non d’acciaio ma di stoffa che contengono il corpo, la pelle, di un uomo.
Ma la materia finge altro, provoca l’estetica per invadere l’etica, l’impegno, la coerenza di un rapporto con l’esterno che non vuole essere più pura pratica creativa. E l’arte diventa altro, piena coscienza di un rapporto con la realtà, emozione, cronaca del presente che sarà storia, che è già storia. La nostra.
L’arte torna così a non rifare sé stessa ma a guardare a ciò che succede intorno e l’artista non è più – non può più esserlo– demiurgo e guru di teorie metafisiche ma protagonista preciso e attivo del suo – nostro – presente, proprio come nella vivida operatività fisica e visiva di Antonio Fraddosio e dell’installazione “Le tute e l’acciaio” (2018).

Fraddosio, nell’opera appositamente realizzata per i suggestivi spazi seicenteschi della GAM di Roma, lavora sulla cronaca decennale dell’Ilva annodando le fila di un confronto con il tempo e i tempi del presente. Dalla cronaca di una città, Taranto, e quindi di una nazione, passando per i riscontri con i suoi ricordi di gioventù. A Taranto appunto, prima e durante l’Ilva. Ma sarà così anche dopo.
Dalla memoria al dramma quotidiano. Dal contesto drammatico di un «lavoro che uccide», come l’ha descritto Nicola Logioia, al percorso artistico coerente di Fraddosio che dopo le opere dedicate ai migranti, alla tutela dei diritti umani mondiali, alla crisi morale dell’uomo occidentale, agli egoismi dei singoli nazionalismi, torna ad esporre a Roma con un nuovo messaggio artistico e antagonista che è anche acuto riscontro dell’impotenza politica. Una delle tante nel mondo.
In sincerità ci siamo persi nelle tante e contorte vicende della cronaca sull’Ilva, nelle diverse soluzioni pratiche – realizzate e/o solo ipotizzate – della politica e dei tecnicismi di questa stessa, anche perché poi quello che rimane veramente è il senso di impotenza di una società rispetto ad un dramma protratto per decenni e che Fraddosio trasforma in arte.

Arte d’impegno, arte-azione che dalla materia contemporanea deduce appunto l’azione e la trascrive in materia, rendendola viva come nei cassoni di cor-ten ossidato utilizzati dall’artista, i quali e contengono – costringono – al loro interno gli acciai incartati e pressati da Fraddosio.
Acciai lavorati e infiacchiti dall’artista che diventano strutture primarie e materie ossidate che, a loro volta, rimandano, così come lo stesso artista suggerisce, al quartiere “dei Tamburi” di Taranto. Per capirci quello limitrofo all’Ilva.
Costretti fra la vita, il lavoro ma anche la morte quotidiani, il quartiere è il simbolo generazionale di una resistenza passiva che Fraddosio trasforma in materia viva e pesante. Rosso ruggine come le polveri velenose che soffocano il quartiere, la città, in contrapposizione con i pannelli di ferro nero, impiegati come piano di fondo, sporcati di ossido e di acidi. Su questi sono deposte le lamiere lacerate, incendiata dall’artifex che usa l’arte per dire altro. Per pensare e fare pensare “ad altro”. Anche se poi quell’ “altro” riguarda la nostra realtà quotidiana. Il dramma di una città che è dramma di una nazione.

In primo piano, le lamiere d’acciaio, strutture emozionali che sono realtà viva, drammatica, con inserite quelle sigle in ferro trattato che non sono ermetismo ma numeri atomici degli elementi che compongono le polveri inquinanti di emissione. La morte reale – non d’arte – intorno all’Ilva.

La reazione diventa azione artistica e pensiero antagonista dell’artista/uomo completamente immesso all’interno di una realtà sentita, vissuta in cui si costringe e ci costringe. Proprio come quei tubolari in ferro ossidato che chiudono lo sguardo del visitatore della GAM e gli precludono la visione aperta, in alto, del cielo. Struttura che imprigiona lo sguardo e quindi il cielo verso cui si apre il chiostro/giardino del museo.
Continua è quindi la compenetrazione di piani di visione e di ellissi di lettura, dove energico rimane l’impatto vivo della materia e il contrasto di questa con il contenitore espositivo. Un contrasto cercato e voluto che crea spessore e prodotto, quasi senza concedere niente alla riflessione.
La realtà è troppo viva e opprimente per lasciare spazio al tempo della riflessione e Fraddosio lo sa e utilizza il senso di oppressione trasformandolo in percorso visivo, prospettiva strutturale.
L’artista in questo modo, nel continuo percorso di rimandi e concezioni, giocati anche su vari stadi semantici, propone una storia di ieri che è ancora di oggi, sperando che non sia “di domani”.
Lavora la materia oggettiva con vigore espressivo, manipolando la materia nuova, contemporanea eppure antica, a tratti anche in maniera ambigua, riproponendo, come ormai fa da anni, quella “poesia della materia” e del dramma sociale che gli è molto cara. Una materia evocativa seppur reale quella di Fraddosio, tanto che l’installazione “Le tute e l’acciaio” non resiste alla tentazione di trasformare l’ideologia dell’impegno in una faccenda di “visione privata”, museale appunto, e a tratti, lo ripetiamo, poetica. Nonostante l’argomento.

Ma del resto Fraddosio ci ha ormai abituato a un’arte che, seppur tratta dalla realtà, viene elaborata e assoggettata senza mai perderne il valore d’impegno, svelandone in più il tratto poetici. Anche dove poesia non c’è.

 

Claudio Crescentini

“Tanto il tumore, se ti viene, ti viene

dopo; e comunque, se vivi qui,

te lo prendi anche se non lavori”.

Un operaio, addetto in cokeria, all’Ilva

 

“Avete fatto voi questo orrore, maestro?”, chiese a Picasso con tono di scherno un ufficiale nazista, alludendo a “Guernica”. “No, l’avete fatto voi”, rispose seccamente il vulcanico artista. Qualcosa del genere, fatte le debite proporzioni, dovrebbe accadere di fronte all’installazione “Le tute e l’acciaio” che Antonio Fraddosio mette in campo come un potente atto di denuncia contro quell’apocalisse di stato rappresentata dalla tragedia dell’Ilva di Taranto. Ma se nel caso del bombardamento di Guernica i responsabili erano immediatamente riconoscibili, nella vicenda del mostruoso impianto siderurgico tarantino, il più grande d’Europa, i colpevoli sono tanti, troppi, in un nauseante intreccio fra amministrazioni locali e governi centrali, pessime commistioni fra politica ed imprenditoria spregiudicata, ambiguità di certe aree dell’ambientalismo, strane e sospette ingerenze da parte anche delle istituzioni comunitarie e di una certa magistratura e via discorrendo. E in fin dei conti la vicenda dell’Ilva è emblema di quel massacro etico, sociale ed economico che riguarda tutto il Sud, dall’Unità d’Italia in avanti. Tanto che oggi risuonano tragicamente paradossali le parole con cui il 10 aprile 1965 il Presidente della Repubblica, Giuseppe Saragat, inaugurò ufficialmente l’impianto di Taranto: “Io sono qui per solennizzare l’entrata in funzione di un grande stabilimento industriale. E anche in questa occasione voglio recare agli italiani del Mezzogiorno l’assicurazione che lo Stato ha preso effettivamente e seriamente coscienza della realtà meridionale e si adopera per mutarla”. Così la netta presa di posizione di Fraddosio è anche quella di un uomo del Sud, per di più pugliese di nascita, che ha visto con i propri occhi, tante volte nel corso degli anni, quell’abominevole trasformazione di Taranto che la testimonianza dell’artista stesso rende meglio di altre parole: “Arrivavo da Martina Franca, dove era nata mia madre, in auto. Era sera. Dall’alto della collina che degrada verso il mare guardai, Taranto non c’era più. Vidi un Inferno di fuoco e di fumo. La più grande acciaieria d’Europa aveva mangiato la città, la campagna e aveva bevuto il mare”. Era nato un mostro che presto avrebbe divorato tutto, così come all’improvviso aveva ingoiato i ricordi familiari di Fraddosio, quando quella terra non era stata ancora stuprata e resa irriconoscibile. In fin dei conti quella che un tempo ormai molto lontano era la città degli ori, tuttora ammirabili nel Museo Archeologico Nazionale di Taranto, si è poi trasformata nella città dell’acciaio, del ferro, del carbonio, dove il diritto al lavoro lo si guadagna dando in cambio la propria salute, la propria vita e ipotecando anche quelle dei propri cari, con una venefica consuetudine che oggi, sempre di più, si sta diffondendo in tutto il mondo globalizzato. In pratica a Taranto si è realizzato un drammatico processo alchemico all’inverso della sua stessa identità: invece che la mitica trasformazione del piombo in oro qui ha preso corpo l’esatto contrario ed, anzi, qualcosa di molto peggiore, una sorta di flagello inarrestabile che è cancro e devastazione ambientale. Dove è finita la vera vocazione di Taranto, legata al mare, anzi, addirittura a due mari? Nel luglio del 1959, durante un epico viaggio intrapreso su una Fiat Millecento per raccontare l’estate degli italiani, Pier Paolo Pasolini, che di lì a poco si interrogherà sulla differenza sostanziale fra “sviluppo” e “progresso”, scriveva: “Taranto è una città perfetta. Viverci è come vivere nell’interno di una conchiglia, di un’ostrica aperta. Qui Taranto nuova, là, gremita, Taranto vecchia, intorno i due mari, e i lungomari”. Come ha notato Alessandro Leogrande alla fine del 2017 in un articolo appassionante, “nelle pagine di Pasolini, la simbiosi tra mare e città, tra il mare e i suoi abitanti, nell’alternarsi dell’eterno gioco dei sessi tra le onde e gli scogli, appare perfetta”. Poi, l’inizio dell’apocalisse: il 9 luglio 1960, viene posata la prima pietra dell’Italsider, il più grande stabilimento siderurgico italiano e per la sua costruzione vengono estirpati, si dice, 40.000 alberi d’ulivo secolari. Alla fine il centro siderurgico finì con l’occupare oltre 1500 ettari di superficie, con un’estensione pari ad oltre il doppio della città. E sorse in una posizione fisicamente e tragicamente attaccata alla città, con una venefica osmosi che non prevedeva nessuna tutela per gli abitanti e moltiplicata anche dalla presenza dell’impianto petrolchimico e del cementificio. Ed aveva ragione ancora Leogrande a parlare di “un’intera città che ne soppianta un’altra, senza che i suoi abitanti se ne accorgano”, citando un romanzo fantascientifico di Philip Dick, “La città sostituita”.

Ora, con l’installazione “Le tute e l’acciaio”, l’apocalisse di Taranto e dell’Ilva arriva nel cuore della capitale e tramite queste opere il termine “apocalisse” riacquista la sua etimologia originaria di “scoperta” e “disvelamento”. Sì, dobbiamo farci i conti fisicamente e psicologicamente con queste lamiere zincate dismesse, lacerate, contorte, accartocciate, sporcate di ossido e di acidi, bruciate, sofferenti. Si riferiscono alle tute che gli operai, finito il turno di lavoro, depositano in una specie di camera di compensazione prima di andare alle docce e che dovrebbero difenderli dai tumori. Il titolo di ogni opera fa seguire al ricorrente “Dieci tute di ferro” la sigla e il numero atomico di uno dei metalli che compongono le polveri di emissione. Ma al di là di tutto e soprattutto al di là delle parole, sono solo la forma e la materia che recano in sé vaghe impronte di corpi umani sconvolti da una sorta di tempesta apocalittica, da un’irredimibile furia devastatrice, da un morbo che ha inquinato anche l’anima. Questa è la forza di Fraddosio, il quale, pur nell’impeto dello sdegno e della denuncia, non si lascia dominare dalla notazione sociologica o antropologica, per quanto sia impressionante, ma cerca ossessivamente la verità emotiva ed esistenziale che si invera nella forma, intesa come presenza ineludibile e come testimonianza inevitabile. E poi la capacità di unire in un ossimoro sconvolgente eleganza e terribilità, grazia e violenza, costruzione e distruzione, nella verità della materia, fa pensare, mutatis mutandis, come possibili termini di paragone ai “Ferri” o alle Plastiche combuste di Burri ma anche, in qualche modo, agli “Otages” di Fautrier e alla loro duplicità, a quell’essere al tempo stesso carne da obitorio e possibile feto. Di fronte alle opere di Fraddosio quasi sentiamo e vediamo l’energia del calore degli altiforni siderurgici ma non ci sfugge l’aerea e pur residua leggerezza di strani panneggi metallici o di manti lacerati, animati da un loro movimento interno e da riflessi promananti un’ardua e cangiante bellezza. In questi sudari di ferro resta l’impronta di corpi umani sofferenti, c’è il senso della morte e della distruzione ma sopravvive una sorta di speranza affidata all’arte, alle sue possibilità catartiche. C’è la tempesta bollente di un’apocalisse tutta terrena e per nulla trascendente ma anche l’afflato potenziale di un vento purificatore che porti un po’ d’aria e di luce fra quelle carcasse tormentate, fra quegli anfratti inquieti. Tutto convive e coesiste, anche se l’impegno prioritario di Fraddosio è quello di toccare i nostri nervi scoperti per non farci chiudere gli occhi in un letargico e purtroppo sempre più attuale sonno delle coscienze. Un’indifferenza, prima di tutto politica ed istituzionale, che non ha mai voluto sentire nel corso degli anni le rare voci che lanciavano un grido d’allarme. Basta ricordare quanto scriveva sul “Corriere della Sera” Antonio Cederna, nel 1971, definendo la vicenda tarantina “un processo barbarico d’industrializzazione. Un’impresa industriale a partecipazione statale, con un investimento di quasi 2000 miliardi, non ha ancora pensato alle elementari opere di difesa contro l’inquinamento e non ha nemmeno piantato un albero a difesa dei poveri abitanti dei quartieri popolari sotto vento”. Ed ancora oggi, lì, a Taranto, non si annienta solo il presente ma si marchia col fuoco della morte anche il futuro, visto che c’è un oggettivo e purtroppo progressivo incremento di gravi patologie legate all’inquinamento ambientale, soprattutto in età pediatrica. La distruzione della quotidianità nelle sue implicazioni vitali (la salute, il lavoro, ecc.) chiamata in causa dalle lamiere contorte di Fraddosio fa venire alla mente, per certi aspetti e pur in tutt’altro contesto, un episodio de “L’amica geniale” di Elena Ferrante, l’esplosione improvvisa e misteriosa di una grande pentola di rame in una sera normale come tutte la altre, una pentola deformata da un grande squarcio e con i bordi sollevati e ritorti, emblema di un minaccioso presagio e della rottura drammatica di tutti gli equilibri, di tutti i valori, di tutte le certezze, nel cuore di una casa come tante con il suo affollarsi di fragili esistenze.

Se molti associano il colore della morte al nero oppure a quello della terra dove si viene sepolti, a Taranto esso è simile ad un venefico manto di ruggine, una polvere pesante, rossastra, dalle sfumature marroni e nere, che avvolge e soffoca la città colpendo soprattutto il rione Tamburi, a ridosso dell’Ilva. Lo si vede bene negli scatti del reportage “Rosso Tamburi” realizzato dal fotografo barese Christian Mantuano. E così anche nelle lamiere di Fraddosio, ciascuna rigorosamente diversa dall’altra, affiorano spesso quei colori velenosi, mortali che si fanno sentire pure nei cassoni realizzati come contenitori per le singole opere e che richiamano strutture di edifici o di stabilimenti industriali, forme scabre, minimali, potenti, cariche di una loro silenziosa tensione drammatica. E in una giornata particolarmente ventosa, durante la mostra romana, potrà capitare che le lamiere si agitino sbattendo sui supporti che fanno parte integrante dell’opera. Se altrove il vento porta aria fresca e rinnovata, a Taranto è invece latore di morte, come ha raccontato lo stesso Mantuano commentando il proprio reportage: “Quando soffia il vento, il primo luogo della città a essere sommerso dal benzene e dalle polveri è proprio il Tamburi. Anzi, come lo chiamano i tarantini, i Tamburi. La gente che ci vive ogni giorno combatte una guerra che sembra essere senza fine. I bambini giocano in parchi la cui erba è completamente bruciata dal minerale; i pensionati, quasi tutti ex operai dell’Ilva, trascorrono il tempo in strada lavando ogni mattina marciapiedi e muretti completamente ricoperti di polvere”. E in una sua foto è immortalata una “lapide” realizzata dagli abitanti di alcune strade del Tamburi che merita di essere ricordata: “Nei giorni di vento nord-nord/ovest veniamo sepolti da polveri di minerale e soffocati da esalazioni di gas provenienti dalla zona industriale “Ilva”. Per tutto questo gli stessi “MALEDICONO” coloro che possono fare e non fanno nulla per riparare”. Così come non possono essere dimenticati quei grandi timbri o marchi stampati sui muri di Taranto come funebri esempi di Street Art con la scritta “Attenzione città inquinata” e con un teschio che indossa una maschera antigas.

L’impegno fisico e psicologico, la vera e propria fatica fabbrile che Fraddosio ha messo in campo nella realizzazione di queste “tute”, di queste paradossali “armature” di un regressivo medioevo tecnologico, partono da una sorta di ideale empatia ed identificazione, mutatis mutandis, del lavoro dello scultore con quello dell’operaio, naturalmente con tutti i privilegi e le difese di cui gode l’artista. Ed è lo stesso Fraddosio a raccontarci con coinvolgente passione questo corpo a corpo che si carica di sofferenza e di dolore: “uso lamiere zincate della dimensione di due metri per uno, all’incirca. Vengono utilizzate in edilizia per schermare il cantiere, nelle campagne per costruire recinti o creare capanni di protezione e ricovero per gli animali. E’ lì che le trovo, dismesse dal loro uso funzionale perché con il tempo perdono la zincatura ossidandosi parzialmente e diventando, così, inutilizzabili. Indosso una tuta antigraffio, scarpe da cantiere con la punta metallica e guanti da lavoro per proteggermi da tagli e abrasioni. Comincio a modellare la lamiera con le mani, le braccia, i piedi e le ginocchia. Lavoro con tutto il corpo. Spesso capita che per dare forma voluta alla lastra di metallo debba assumere posizioni e fare movimenti del tutto innaturali. Utilizzo spessori e corpi solidi di varia dimensione e forma per realizzare le estroflessioni: martello, mazzetta ed altri per creare squarci, rotture, tagli, frastagliamenti e avvallamenti. E’ una grande fatica fisica che si esaurisce alle volte in molte ore di lavoro ininterrotto. Un notevole impegno anche mentale perché progetto e realizzazione dell’opera sono un unico atto. Il risultato è un panneggio metallico spiegazzato, accartocciato, lacerato, sporcato da tracce di ossidazione, bruciature e acidazioni che realizzo sulla superficie prima e dopo averla modellata”. Così questa installazione, che per scelta di Fraddosio resterà un unicum nel suo percorso per una sorta di profondo rispetto verso la vicenda drammatica dell’Ilva, porta con sé, davanti ai nostri occhi, l’impatto potente di una catastrofe formale ed esistenziale, al tempo stesso, con un’osmosi che non ammette separazioni fra azione artistica e densità emozionale. Ne è protagonista, in senso universale, la fragilità della vita umana, che nessuna corazza o tuta di ferro, forgiata con la letale pozione di ipocrisia, cinismo e avidità, può tutelare o proteggere.

 

Gabriele Simongini

 

Ti guardano senz’occhi, né labbra, né sorriso. Sono le forme scultoree di Antonio Fraddosio, lamiere accartocciate su pannelli di ferro, però al contempo aeree, sospese a mezz’aria, senza un centro di gravità che ne sorregga il peso. Sono anche corpi, perché del corpo umano riflettono il movimento interno, quell’energia che si comunica all’esterno, finché c’è vita, finché lì dentro pulsa il desiderio. Ma sono vive o morte queste figure informi? C’è una scintilla vitale in questa galleria di metalli corrosi dagli acidi, bruciati dalla fiamma, chiazzati dalla ruggine, martoriati dalle mani dell’artista? La risposta è sì, la risposta è anche no. La loro immagine cattura il tempo di passaggio nel quale l’ombra prende il sopravvento sulla luce, ciò che esiste diventa ciò che è stato.

È la cifra distintiva di Fraddosio, la sua capacità d’imprimere una forma allo sformarsi, alla dissoluzione delle cose. Un tratto che ricorre in tutto il suo lavoro, nelle opere scultoree così come in quelle pittoriche. Anche se Fraddosio, quando dipinge, non dipinge, non usa mai il colore: assembla piuttosto i cromatismi dei vari materiali depositati sulla tela o sulla tavola, senza sovrapporvi, col pennello, alcuna coltre artificiale. C’è infatti una verità nella materia, nelle diverse materie usate dallo scultore o (più raramente) dal pittore: legni, gessi, stucchi, cementi, cartoni pressati, ferri, resine, garze, reti metalliche, intonaci, catrami. E pietre, per metà grezze per metà scolpite.

L’elemento unificante delle sue costruzioni risiede perciò in una decostruzione, in una destrutturazione. La struttura è il reale, per come si manifesta al nostro sguardo: una superficie levigata, con un ordine che attinge dalla razionalità dell’intelletto. Però al di sotto pulsa un braciere d’istinti e d’emozioni, e c’è in ultimo la morte, prima e dopo ogni esistenza. Anzi: il nostro stesso stare al mondo non è che un’eccezione rispetto al tempo eterno della morte, e l’eccezione dura un battito di ciglia, giacché lungo la corsa dei millenni e delle ere geologiche noi non ci siamo, non siamo stati, non saremo.

Ecco, Antonio Fraddosio è un poeta dell’oscurità, delle tenebre, o meglio dell’ottenebrarsi, termine che poi rimanda a una corruzione della mente, a un disturbo percettivo. Sarà per questo che i suoi lavori viaggiano sulle diverse tonalità del grigio, del bianco, del nero, senza mai accendersi in una vampa di colori più sgargianti, senza illuminarsi, se non d’un lucore appassito. Sarà per questo che Fraddosio ha sempre intitolato le proprie opere come altrettante malattie dell’anima: Sfibramenti, Distacchi, Torsioni, Scissure, Fratture, Sconnessioni. O forse sarà che il poeta è anche un minatore, scava nel profondo, e sotto la crosta il mondo è un pozzo scuro.

C’è valenza politica nelle sculture di Antonio Fraddosio? Di certo ce n’è l’intenzione: lui è un uomo segnato dall’idea del comunismo e poi dalla crisi di tutte le idee, nel tempo inerte e vuoto che stiamo attraversando. C’è un’intenzione politica nelle Dieci tute di ferro esposte adesso a Roma, per la prima volta, presso la Galleria d’arte contemporanea Roma Capitale: giacché quelle tute, dedicate a ciascuno dei metalli che compongono le polveri di emissione, sono l’abito indossato dagli operai dell’Ilva, a Taranto, per difendersi (invano) dai tumori. C’era un’intenzione politica nelle opere che Fraddosio ha via via creato per rendere omaggio alla Costituzione italiana (in ultimo Demos Cratos e La grande Carta), denunziandone al contempo il tradimento. Ci fu un’intenzione politica nel ciclo intestato ai Resistenti (Louise Michel, Amilcare Cipriani, Giuseppe Gracceva, Pietro Cocco, Giacomo Corcella), uomini sconosciuti ai più, che si spesero per i poveri e gli oppressi. Ed era altresì politica, tutta politica, l’ispirazione da cui prese forma La bandiera nera nella gabbia sospesa, presentata alla 54ª Biennale di Venezia: la bandiera simboleggia l’ideale, la gabbia è l’emblema del potere che lo tiene in catene.

Ma dopotutto ogni artista è un politico, un uomo della polis, attento ai suoi destini. E d’altronde l’arte – diceva Picasso, e ama ripetere Fraddosio – non è fatta per decorare gli appartamenti, è invece lo strumento d’una guerra difensiva e offensiva contro il nemico. Una guerra combattuta con gli strumenti specifici del lavoro artistico, col suo linguaggio obliquo, indiretto, evocativo, che tuttavia può rappresentare il mondo con maggior precisione dei discorsi più precisi, che può colpirti come un pugno sullo stomaco ben più dei ragionamenti che ti propinano i saggisti. Perché l’espressione artistica costituisce uno strumento privilegiato di conoscenza, un veicolo di verità, quel poco di verità che ci è concesso d’esplorare. E perché «l’arte non parla se non di cose assenti», come disse Valéry. La sua stessa esistenza lascia infatti balenare la possibilità d’un ordine diverso da quello in cui siamo immersi, ed esattamente in ciò risiede la sua forza sovversiva, nella protesta contro il principio di realtà, che per lo più ci rende schiavi. Da qui l’aforisma di T.W. Adorno: «ogni opera d’arte è intrinsecamente rivoluzionaria».

Eppure la forza politica dell’arte non sta mai nella sostanza, bensì esclusivamente nella forma. Dipende dalla felicità espressiva degli artisti, non dal soggetto che ciascuno sceglie di rappresentare. E i polittici di Antonio Fraddosio ne offrono la prova. Sono possenti, vigorosi, però la loro forza discende dall’eleganza formale con cui l’artista scolpisce i materiali, dalle torsioni che vi imprime, dalle strutture curvilinee che ne disegnano l’ossatura, dalle superfici granulose in cui si sfalda la durezza del legno o del ferro o della pietra. Nel suo percorso artistico qualcuno ravviserà le tracce di Burri, qualcun altro l’ascendente di Manzoni. Analisi legittime, del resto siamo tutti nani sulle spalle dei giganti. Ma in ultimo il tentativo di Fraddosio è lo stesso che impegnò Italo Calvino, è lo sforzo descritto nella chiusa delle Città invisibili: «cercare e saper riconoscere chi e cosa, in mezzo all’inferno, non è inferno, e farlo durare, e dargli spazio».

 

Michele Ainis

 

 

Un’installazione in dieci opere di Antonio Bernardo Fraddosio sul caso Ilva, «Le tute e l’acciaio», impone allo spettatore una riflessione dura sul conflitto tra salute e lavoro: un fantasma di ferro e piombo.

Con il via libera del nuovo governo, il caso Ilva sembra destinato a scivolar via dalla luce dei riflettori sigillato da un accordo che sancisce il passaggio a una multinazionale indiana: contenuti tagli del personale, impegni di riconversione che puntano a ridurre nel tempo i livelli d’inquinamento urbano. Promesse che allontanano e declassano l’emergenza. I rischi per la salute trasformati da incubo nazionale a paure private, spazzatura che può finire sotto il tappeto. Poco importa se quel mostro sputaveleno, inaugurato nel 1965 nel cuore della città abitata a stravolgere la bellezza e la vita di Taranto sia già una sconfitta, una delle tante inanellate dalla miope idea di progresso dell’Italia del boom. Poco importa se da allora il futuro di Taranto e ogni lotta per inventarne uno più incoraggiante siano stretti dalla morsa di un doppio dilaniante conflitto tra due squilibrati diritti costituzionali: la difesa del lavoro (l’Ilva come risorsa economica e fonte d’occupazione irrinunciabile) e la difesa della salute (l’Ilva come spada di Damocle, agguato di morte per tutti i cittadini).

È un dilemma da tragedia greca che ci rigetta addosso, come misura e questione di civiltà, come un problema irrisolto e sospeso che nessuno può eludere, un’opera d’arte esposta fino al 3 marzo nel cortile della Galleria comunale d’arte moderna di via Francesco Crispi a Roma, per iniziativa di due curatori di vista lunga e controtendenza, Gabriele Simongini e Claudio Crescentini: Le tute e l’acciaio, il titolo che ne riassume la provocazione e la sfida.

È un’istallazione firmata da Antonio Bernardo Fraddosio, sessant’anni ben portati, scultore nato a Barletta ma da oltre venti anni traslocato in uno studio nella campagna di Tuscania, nel Viterbese, dove continua a sviluppare per cicli tematici una rigorosa ricerca espressiva di impegno sociale. Quel che resta dello sviluppo: è il capitolo che ha iniziato a scrivere con questo primo grande e complesso lavoro, che inizia il suo ciclo di vita qui a Roma ma, nelle intenzioni e nelle speranze dell’autore, dovrebbe essere montato e offerto allo sguardo di tutti non in un museo ma all’aperto in varie piazze d’Italia. Esibito come un monito ingombrante e inquietante. Soprattutto di chi ha smesso di indignarsi ed emozionarsi. O di chi confina emozioni e condivisione solo nel tempo breve dell’emergenza.

È uno spettacolo in dieci quadri. Impaginato con un colpo d’ala di grande impatto visivo, all’interno di dieci grandi casse di ferro, addossate in cinque gruppi l’una contro l’altra, e sormontate da una ragnatela di tralicci metallici a sostenere fari che di notte illuminano le varie nicchie. In ogni nicchia, appese ad un chiodo, le pieghe di una tuta appena dismessa che evocano le contorsioni e le ferite dei corpi che le hanno indossate. Il primo intento, spiega Fraddosio, è stato quello di simulare, i camerini, lo spogliatoio di una fabbrica, l’Ilva. Gli involucri sono rugginosi, di un rosso cupo e sfrangiato che vira verso il marrone. In basso, sul fondo, ognuno è contrassegnato da una lettera e delle cifre, i simboli chimici delle sostanze tossiche che il fuoco degli altiforni produce e solleva, amianto, zinco, piombo, molibdeno, e così via. Il secondo intento, quello di restituire l’architettura stridente dei balconi, vuoti e tamponati con ogni mezzo, le quinte opprimenti tra cui sfili se attraversi il quartiere Tamburi, quello che fiancheggia la fabbrica. «Non si può vivere in quelle case tinteggiate dalla fuliggine e dalla polvere. Ma la gente ci vive e ci muore».

Il pieno e il vuoto. Fraddosio ha sempre giocato su questa alternanza di piani. Ma è il vuoto quel che ora, qui, colpisce di più. Questo vuoto la materia su cui Fraddosio lavora, il richiamo immaginario con cui ci obbliga a misurarci. Le sue sculture, lastre d’acciaio ondulato e sagomato col fuoco, che riverberano vibrazioni di colore sprigionate solo dal calore, sembrano corazze. O ancora scheletri di corpi, ridotti a pura pelle, che rivendicano e ostentano lo strazio, l’umiliazione, la fatica a cui quei corpi assenti sono stati esposti. Un supplizio che ci viene da associare a quello di un crocifisso, forse le piaghe rugginose, forse più ancora quelle travi con le luci che disegnano nello spazio le braccia di altrettante croci. Ma il martire non è un Dio che risorge, riprende forza luminosa e ci illumina. La sofferenza è quella di condannati anonimi, qualunque, senza meriti e speranza, solo il destino di essere inchiodati ad un lavoro che uccide, e se non tocca a te può toccare ai tuoi cari che ti aspettano. E solo quelle parvenze, una diversa dall’altra, appese in bacheca, a ricordarci che sono uomini.

 

Testo originale su succedeoggi.it

Salvarsi dal naufragio

All’orizzonte, finalmente, un’isola. Appare nera nel mare scuro, sul finire di una notte cupa e fredda, fra onde inquiete e implacabili. Gli occhi dei migranti sopravvissuti ad un viaggio infernale si accendono di qualche incerta speranza. Forse è Lampedusa, forse è Lesbo, Italia o Grecia, insomma è Europa. O meglio, quel che resta di un’Unione Europea in piena fase di disintegrazione (lo spiega bene Jan Zielonka in “Disintegrazione. Come salvare l’Europa dall’Unione Europea”), spaccata da un terremoto non naturale ma morale e storico oltre che preda di miopi calcoli politici nazionali. Un’Europa che non sa più che cos’è né dove va, prigioniera anche dell’angoscia che fra i migranti si nascondano i terroristi dell’Isis e quindi sempre più restia all’accoglienza e all’umana pietà. E allora, pur fatte le debite proporzioni, a doversi salvare dal naufragio non sono solo i poveri migranti che in più rischiano la vita ma anche noi europei colpiti da una profonda crisi morale, arroccati nel cieco egoismo dei singoli nazionalismi e ormai indifferenti perfino a quel rispetto e a quella tutela dei minimi diritti umani che ci hanno finora definiti e uniti proprio come europei. “Un uomo che è un uomo – dice il dottor Pietro Bartolo in “Fuocoammare” di Gianfranco Rosi – deve aiutare queste persone”. In una frase così semplice e vera c’è tutto il senso di un dramma che va affrontato recuperando il senso profondo del nostro stare nel mondo da esseri umani solidali con altri meno fortunati di noi. “Terrorismo, guerre, paure, insicurezze – ha scritto Tullio Gregory – hanno messo in moto quello che forse è il più grande esodo della storia moderna, con centinaia di migliaia di profughi che dai Paesi dell’Africa e del Vicino Oriente si dirigono verso l’Europa – attonita e incapace – lasciando sulle vie della speranza migliaia di morti”. Del resto, solo a gennaio i morti nel Mediterraneo sono stati 368, fra cui almeno sessanta bambini: vera e propria tragedia nella tragedia, orrore nell’orrore, è la mattanza di minorenni nei viaggi della disperazione che si moltiplica diventando violenta strage degli innocenti in un paese martoriato come la Siria, in cui finora sono oltre diecimila i bambini deceduti sui trecentomila morti complessivi. Ed è stato calcolato da vari organismi delle Nazioni Unite che nel solo 2014 i migranti inter-nazionali, ossia trasmigrati da una nazione all’altra, sono stati circa 700 milioni. Questi numeri impressionanti ci dovrebbero far rendere conto una volta per tutte dell’inarrestabilità del fenomeno, che trova i suoi fondamenti nella legge della sopravvivenza. Ed è lecito interrogarsi sulla vera natura del recente accordo tra Unione Europea e Turchia che, nelle parole quanto mai condivisibili dello scrittore turco Hakan Gunday, porta alla constatazione “che ancora una volta una tragedia è diventata un affare, un mercanteggiamento. Su esseri umani. Ed entrambe le parti, Ue e la Turchia, lo giocano in modo matematico. Il fattore umano non sembra più contare”.

 

MediterraNero (Nero Mediterraneo)

Sulla spinta emozionale delle tristi verità messe a nudo dagli incessanti movimenti di migranti, dalla crisi d’identità europea, dalla minaccia terroristica e dall’inquinamento ambientale, due artisti come Antonio Fraddosio e Claudio Marini hanno iniziato, senza conoscersi, a dare forma a quell’inquietudine quasi apocalittica che agita il mondo col suo vento di follia. E allo scrivente è bastato solo cogliere la sintonia sorprendente fra le loro visioni pur così individualmente personali e metterle in dialogo al Museo Bilotti, con una sinergia densa anche di sviluppi futuri vista l’immediata collaborazione instauratasi fra i due artisti. Eppure, in questa mostra, al centro e prima di tutto c’è sempre la forma, in cui racchiudere dicibile ed indicibile senza farla precedere o dominare da connotazioni teoriche, antropologiche o sociologiche che oggi portano sempre più a sostituire la vita autonoma delle opere con la tirannia della parola. Su tale via non si può far altro che condividere questa riflessione di Nietzsche: “Il vero artista non dà valore a nessuna cosa che non sappia diventare forma”.

Le opere di Marini e Fraddosio, fra pittura e scultura, riflettono, con una sorta di sensibilissimo sismografo interiore, l’evoluzione apocalittica ed emergenziale di eventi e fenomeni inizialmente sottovalutati da tutti, soprattutto dai cosiddetti poteri forti, proprio quelli che hanno dato una spinta determinante a scatenarli. Ecco allora l’inquinamento ambientale planetario, il terrorismo più spietato, gli scontri etnici sempre più violenti e sanguinosi, e soprattutto l’immane afflusso di migranti che non conosce limiti, trasformando il Mediterraneo, come è stato detto, da “mare nostrum” in “mare monstrum” e svelando la colpevole indifferenza di tanti (di tutti?). In queste opere c’è scritta in controluce la trascinante ed invincibile forza della vita che spinge i migranti ad attraversare mari su imbarcazioni di fortuna, a scalare muri, a nascondersi nel cofano di una macchina, a percorrere centinaia di chilometri a piedi col timore fondato di essere respinti. E viene da chiedersi, così come fanno i due artisti con le proprie opere: è possibile fermare il desiderio inarrestabile di sopravvivenza? E’ possibile fermare chi osa attraversare mari e tempeste, scavalcare muri con recinzioni elettrificate, viaggiare in condizioni disumane e quanto mai rischiose, marciare a piedi per centinaia di chilometri, pur senza alcuna minima certezza di arrivare a destinazione? E come non trarre una profonda lezione dal fatto che l’accoglienza e la solidarietà più vera e disinteressata ai migranti vengono da gente semplice e non benestante che si trova alla vera frontiera dell’Europa di oggi, il cui simbolo migliore sono le isole, peraltro povere, di Lampedusa e di Lesbo? Così, oltre all’Italia, proprio quella Grecia massacrata dall’Europa burocratica e a trazione tedesca dà prova esemplare di quel che potremmo essere tutti nel ridare pieno senso alla parola “uomo”. Lampedusa e Lesbo (candidata al Nobel per la pace) sono l’emblema di un’Europa accogliente che purtroppo in termini generali e politici di fatto non esiste. E in tal modo siamo ormai agli antipodi dall’epoca in cui proprio un tedesco, Hegel, diceva: “Al nome Grecia l’uomo colto europeo subito si sente in patria”. L’Europa dei potentati finanziari ed economici, diventati i padroni dei nuovi “valori”, ha surclassato e quasi annientato l’Europa della cultura e del logos. Forse è finita una civiltà. E dopo tanto tempo sembra vanificata quella conquista così efficacemente e sinteticamente descritta da Edgar Morin nel suo “Pensare l’Europa” (1988): “La riattivazione dell’eredità greca, merito originale del Rinascimento, diventa permanente. Da questo momento il pensiero, la poesia e l’arte europea rimangono ancorati a questa fonte”. Ora, purtroppo, la riflessione di Morin va declinata al passato. Annichilita la “Venere di Milo”, il simbolo della bellezza violentata e mutilata di oggi, con un senso d’orrore quasi grottesco, può identificarsi con la “Venere di Palestina” di Fraddosio, relitto e carcassa raggrinzita che nonostante tutto ostenta un residuo di carnalità fattasi pietra. E allora ci chiediamo con preoccupazione, e con noi anche i due artisti, se ha ragione il narratore del film “Francofonia – Il Louvre sotto occupazione” di Aleksandr Sokurov nel dire che le forze del mare e della storia sono “senza ragione e senza pietà”.

 

Vessilli dell’apocalisse?

In mostra simboli concreti dell’inquietudine odierna diventano le bandiere, chiuse in gabbia, sgualcite, strappate, usurate, inquiete, liquefatte, vessilli in crisi e spogliati di qualsiasi retorica celebrativa, schegge impazzite che testimoniano l’effetto dilaniante di quella sorta di terza guerra mondiale “a pezzetti, a capitoli” di cui ha parlato Papa Francesco. Lo si vede bene nella “Bandiera nera nella gabbia sospesa” di Fraddosio, che reclama di essere agitata, cullata e ruotata, quasi divelta per liberare quel vessillo prigioniero che è un po’ l’anima di ognuno di noi. Con un amaro paradosso, l’unica che può sventolare muovendosi nello spazio è quindi la gabbia mentre la bandiera è condannata a vivere del riflesso di quel movimento e giace immota come un animale costretto tra le sbarre. Così il minimalismo assertivo della gabbia esalta per contrasto quel vessillo combusto e annichilito, emblema inquietante di resa ed impotenza collegabile alle molteplici crisi del nostro tempo. E senza dubbio la presenza profetica della gabbia e della bandiera nera ci fa pensare alle immagini minacciose del terrorismo, oggi onnipresenti sui massmedia, anche se l’opera di Fraddosio risale al 2011. Nella contrapposizione fra costrizione ed aspirazione alla libertà presenti in quest’opera tornano alla mente le riflessioni di Paul Klee: “L’uomo è per metà prigioniero e per metà alato. Ognuna delle due parti in cui è lacerato il suo essere, accorgendosi dell’altra, prende coscienza della propria tragica incompiutezza”.

Su un altro versante, è da alcuni anni, con i vari cicli delle bandiere, che Claudio Marini ha chiamato a raccolta tutto il mondo non più tramite i vessilli ufficiali e da bella parata ma con i suoi stendardi inquieti e liquidi, in continuo mutamento, capaci di rispecchiare sia gli impressionanti flussi migratori da un continente all’altro di esseri umani poveri, disperati, alla ricerca di un’altra vita, che la stessa metamorfosi dell’idea e dell’identità di nazione. Anzi, potremmo immaginare che quasi tutte le opere di Marini esposte al Museo Bilotti diamo immagine per frammenti ad uno sterminato mare nero su cui galleggiano ed affiorano stendardi abbandonati, relitti, vestiti lacerati, avvisi d’allarme o di pericolo giunti da chissà dove, in un solo immenso naufragio che moralmente ci accomuna tutti. Così sta a noi europei ridare i colori dell’umanità e della dignità umana al Mediterraneo perché il mare, come ha mirabilmente scritto Paul Valéry, contiene tutte le possibilità: “usa la trasparenza e i riflessi, il riposo e il movimento, la pace e la tormenta; dispone e sviluppa di fronte all’uomo, in figure fluide, la legge e il caso, il disordine e la periodicità; indica la via o sbarra il cammino”. E’ una riflessione rispecchiata con forza proprio nelle opere di Marini, in particolare nel dittico “Salvarsi dal naufragio” e nel ciclo “Mediterraneo”.

Il nostro sguardo penetra in profondità, nelle viscere di queste bandiere sconvolte, senza restare sulla superficie dell’immagine e in ciascuna opera pare quasi di vedere riflessi i sogni, le tragedie e le sofferenze di un’umanità lacerata, diversa in ogni paese ma in fondo uguale nel suo aspetto universale. Le bandiere di Marini, dall’Italia agli U.S.A, dalla Siria all’Iraq, fremono di convulsioni irrefrenabili, la loro pelle si raggrinzisce e si contorce per il dolore, smascherando ogni retorica ipocrisia e violenta sopraffazione travestite da orgoglio nazionalistico. In questa liquefazione della forma nel caos magmatico del disordine e della sopraffazione, si può anche vedere, per parafrasare Massimo Cacciari, “l’assenza di forma derivante dall’equivalenza universale di ogni ente in quanto merce, con la sottomissione alle “leggi” del mercato e dello scambio, coronate in leggi di natura”. Nell’impressionante sfilata di questi vessilli tormentati, tutto il mondo appare agitato da un vento d’apocalisse che sembra possedere anche la forza di un giudizio universale laico. Del resto, intuendo la crisi morale di un’Europa profondamente fragile, già nel 2005, con una visione lungimirante, Claudio Marini aveva dato immagine ad una Unione Europea quanto mai debole, disunita, con quelle stelline tremolanti dei paesi fondatori che non davano alcuna sicurezza né valore stabile, quasi sul punto di affogare nel mare-cielo azzurro e blu. Le bandiere nere, il dittico “Salvarsi dal naufragio” realizzato per la mostra e il ciclo “Mediterraneo” dedicato ai migranti con il recupero di oggetti trovati sulla battigia e “sporco” di notte dolorosa, di sangue, di tensioni laceranti e di incubi, hanno già una propria forza storica e morale che va al di là della pura e semplice attualità per l’osmosi strettissima e profonda fra formalizzazione materica e sostanza d’impegno etico, nella perfetta identificazione di tecnica e “contenuto”, senza alcuno scollamento sociologico o illustrativo. Il visibile dell’opera è innervato dall’indicibile che ne è parte integrante e che lo rende sempre diverso. Come lo scrivente ha notato in un’altra occasione, in ognuno di questi lavori sono prima di tutto i sommovimenti ansiosi della materia e la potenza ineffabile della pittura a metterci in contatto con drammi e tragedie, ingiustizie e violenze in modi che non hanno alcuna relazione con la comunicazione verbale o mediatica. E così Claudio Marini non illustra alcunché né la sua pittura ha bisogno di quegli apparati esplicativi e teorici che ormai sono indispensabili per far esistere tante, troppe pseudo-opere contemporanee legate indissolubilmente ad una costruzione narrativa che le preceda e le giustifichi. La sua ricerca, in piena autonomia linguistica, fa da soglia e da ponte fra il ricordo delle vittime dimenticate e la nostra esperienza visiva ed emotiva. Ecco, Claudio Marini agisce su quel condensato della storia e delle radici di ogni nazione che è la bandiera depositandola in una sorta di frullatore che la sgualcisce, la macchia, la strappa, la scioglie, la usura, per poi farne venire fuori il suo ritratto attuale, veritiero, sconvolgente, in cui domina la sinfonia del “profondo nero”, di volta in volta, magnificamente, lucido oppure opaco, pulito o sporco, elegante o trasandato. Mentre le bandiere ufficiali che sventolano sui pennoni internazionali sono immacolate e perfette come il Dorian Gray perennemente giovane di Oscar Wilde, Claudio Marini ha il coraggio di guardare l’effigie nascosta e non di rado sofferente di queste nazioni e di darcene conto. Diventa un cronista obiettivo ma non indifferente. In piena sintonia con le opere di Marini, ne “L’isola nera” di Fraddosio dodici quadri delle stesse misure sono simili a tessere di un mosaico che rappresenta i dodici mesi del 2013, l’annus horribilis (pensiamo, ad esempio, al naufragio del 3 ottobre in cui 366 migranti annegarono vicino alla costa di Lampedusa) in cui è iniziato e cresciuto drammaticamente quello che oggi dobbiamo considerare un inevitabile esodo. E’ una sorta di tragico fregio fatto di tanti fotogrammi materici, magmaticamente “corrucciati”, che richiedono una contemplazione prolungata per cercare una luce residuale nell’oscurità incombente E “L’isola nera” è vista con gli occhi stessi dei migranti stremati che vi si avvicinano col loro carico di dolore e di fragile speranza.

A proposito di mare ecco poi “Le onde nere” di Fraddosio, realizzate in fibro-legno modellato, cemento, catrame ed asfalto liquido. In questo caso l’artista crea un organismo plastico colmo di forza archetipa e di vitalità pulsante, destinata nella sua inquietante fluidità ad avvolgere e quasi a travolgere lo spettatore. Come presenze metamorfiche richiamano sia delle onde che delle bandiere senza patria e drammaticamente notturne. Escludendo anche in questo caso qualsiasi volontà didascalica ed illustrativa dell’artista, non si può fare a meno di avvertire una temperie apocalittica che in qualche modo riporta alla mente una polifonia di motivi tragici, dai marosi che spingono e spesso travolgono i migranti ai terrificanti fenomeni dello tsunami e delle onde anomale, qui depurati da ogni valenza naturalistica, senza trascurare la cieca violenza dell’uomo sulla natura e l’inquinamento ambientale ormai forse inarrestabile. Così, nelle sculture e nelle carte materiche di Fraddosio, la costruzione è anche distruzione, la struttura è destrutturata, la nascita del nuovo implica la fine esplosiva del vecchio, lo spazio è concavo e convesso, la vitalità convive con un profondo senso di disfacimento, la speranza con la disperazione, l’aspirazione ad un volo liberatorio porta con sé la paura della caduta. Egli dà corpo più che immagine, vista la fisicità dei suoi lavori, ad un’idea profonda di crisi relativa alla nostra epoca, alla necessità di una scelta fra ciò che sta crollando e quello che sta faticosamente emergendo in modi ancora indistinti e faticosi. “Crisi delle utopie, crisi dei progetti, crisi dei modelli – ha scritto Yves Michaud con parole che Fraddosio potrebbe ben condividere- perfino crisi della storia divenuta finzione. Dal punto di vista collettivo, il capitalismo e la globalizzazione sono ormai l’ambiente, senza esterno, in cui ci tocca vivere.[…] Il tempo si è per così dire appiattito: non comporta più la dimensione di un fine ultimo che faceva luccicare il futuro”. Le antiarchitetture destabilizzanti di Fraddosio, immagini del cantiere della crisi in atto, costruite anche con umili materiali di recupero e prive di qualsiasi levigata compiutezza, fanno emergere il ritratto di un mondo che deve ormai fare i conti col proprio malessere più nero e profondo. Le fratture che percorrono come terremoti la superficie delle sue opere mettono a nudo le crepe nascoste di un modo di vivere asettico, indifferente, anestetizzato. Ne offrono un esempio di rara potenza tre lavori in legno e cemento, intitolati “Tutte le lesioni” e fondati su una discontinuità lacerata che li porta a dialogare reciprocamente tanto da potersi comporre anche in un trittico quanto mai efficace e polifonico, sospeso fra sisma e naufragio. In un’opera come “Numero quattro”, graffi, incisioni, concrezioni, combustioni, dilavamenti, abissi vertiginosi, riflessi d’oro e d’alabastro, barlumi di trasparenze impreviste creano una pelle materica che ha una sua “elegante terribilità”, in sé spiazzante, fra abissi minacciosi d’ombre impreviste e squarci di catartiche luci dorate, fra speranza e disperazione. In una carta come “Linea d’ombra” (il cui titolo è ispirato al romanzo “The Shadow Line” di Joseph Conrad, che ha come protagonista il viaggio nel mare della vita), il rapporto dialettico fra drammatica deflagrazione materica ed estremi residui di una struttura originariamente geometrica (i relitti delle certezze razionali?) sembra far emergere in controluce la necessità di una scelta di responsabilità in un momento decisivo della nostra storia di europei.

 

La forma della responsabilità

Quel che unisce, nell’inquieto sommovimento materico che si fa visione turbata, le opere di Marini ai lavori di Fraddosio è anche la capacità dei due artisti di far penetrare in profondità il nostro sguardo, nelle viscere di questi lavori “sconvolti”, senza farlo restare sulla superficie dell’immagine: così in ciascuna opera pare quasi di vedere rispecchiati i sogni, le tragedie e le sofferenze di un’umanità lacerata, diversa in ogni paese ma in fondo uguale nel suo aspetto universale. Ecco la “natura” e il “potere” della vera opera d’arte, come ha scritto Jerry Saltz, quella che “non ci limitiamo a guardare in superficie. Guardiamo anche dentro e attraverso di lei, dentro e attraverso la pittura, il pigmento, la tela eccetera fino ad arrivare a qualcos’altro. Non vediamo solo noi stessi e la mente del suo creatore. In qualche maniera metafisica, ma al tempo stesso organica, vediamo una mente e una memoria collettiva. Vediamo un oggetto statico imbastito di pensieri e ricordi, un oggetto immutato che cambia nel tempo”. Fraddosio e Marini ci offrono il loro intervento, la propria testimonianza incandescente e palpitante di quel che vedono, di quel che sentono, da esseri umani che si rivolgono prima di tutto ai propri simili. Proprio per questo le loro opere più che guardate vanno sentite come un’esperienza in fieri sul mondo di oggi. Come ha detto il regista Peter Stein, “la storia non ha senso, ma dobbiamo ugualmente continuare a cercarlo. Io parlerei di responsabilità. In una duplice accezione: verso se stessi e verso gli altri”. Ecco, per Fraddosio e Marini l’arte stessa è vessillo di responsabilità che cerca forma.

 

Gabriele Simongini

 

L’accostamento di due artisti dalla diversa formazione e che si esprimono in modo diverso è spesso rischioso, perché non sempre il visitatore della mostra riesce a cogliere i nessi, le trame di dialoghi che si intessono, le corrispondenze più o meno esplicite. Nel caso di Antonio Fraddosio e Claudio Marini si ha a prima vista l’impressione di un diverso percorso, basato su scelte stilistiche non omogenee, sebbene entrambi abbiano un elemento comune nella bandiera.
Quelle “interpretate” da Claudio Marini, recentemente nere ma prima anche con colori sgargianti e accostamenti arditi, come sono in realtà, si confrontano con le opere di Fraddosio dove dominano i neri e i colori neutri quali il sabbia ed il bianco sporco, e si rilanciano l’un l’altra un medesimo tragico messaggio. Le bandiere di Marini sembrano a prima vista “realistiche”, seppur interpretate “artisticamente”, ma a ben guardare ci si rende conto che l’autore non ha solo manipolato la tela con l’uso materico di smalti o con lo stropicciamento della tela stessa, ma ad ognuna di esse ha aggiunto qualche elemento che ci connette direttamente con il popolo che la bandiera rappresenta, con i drammi che quel popolo sta vivendo o ha vissuto, dalla dolorosa e ingiusta crisi della Grecia alle fragili e spesso sanguinose primavere arabe fino alla tragedia del Giappone con l’esplosione della centrale nucleare di Fukushima. Per apprezzare il messaggio di Marini è necessario che lo spettatore sia in grado di giungere all’emozione attraverso quella che potremmo chiamare una sorta di “cognizione del dolore”, un dolore che attraversa il nostro mondo in modo davvero globalizzante.
Il messaggio di Fraddosio è più diretto e l’impatto con la grande bandiera nera chiusa in gabbia, con il movimento della “tela” rattrappito e congelato tra le sbarre, trasmette immediatamente un messaggio drammatico. La gabbia, simbolo di per sé di costrizione, incombe sulle nostre teste, con all’interno qualcosa che, come corpo vivo, cerca contorcendosi lo spazio nel quale collocarsi. Una bandiera ben lontana da quelle che vediamo nelle rassicuranti cerimonie ufficiali, con i colori nazionali che si dispiegano nell’aria e, per dirla retoricamente, “garriscono al vento” mentre il popolo raccolto si emoziona in un ritrovato senso di appartenenza. Non meno forti nel loro impatto sono le altre opere scultoree, assemblaggi di legni, cemento, ferri, trattati con grumi di catrame e colori terrosi, che con margini seghettati, punte, tessiture materiche e sfaldamenti, inducono subito sentimenti di inquietudine. Non sono certo rassicuranti i titoli che Fraddosio ha dato alle sue opere, che contengono termini come “lesioni”, “scissure”, “distorsioni”, “ruderi”, come non rassicuranti sono i colori che usa, che negano ogni ottimismo: emblematico è il titolo di un’opera e della bella mostra che si è tenuta a Lucca nel 2012, “Luce nera”.

È quindi una mostra di grande e tragica attualità, che ci obbliga a confrontarci con il dramma di un mondo nel quale, ormai, la guerra e la violenza sono ovunque e si manifestano in mille imprevedibili forme. Ci insegna a vedere la pittura e la scultura in continuità con la realtà, come parte di essa. Per noi italiani il titolo della mostra è di immediata comprensione: mai nella nostra storia la parola naufragio ha assunto tale portata, ogni giorno ci viene gettata addosso in tutti i notiziari, fa parte ormai del nostro quotidiano. E abbiamo tutti capito che non c’è salvezza individuale, che il nostro mondo deve ritessere una rete di solidarietà, che tutti dobbiamo essere protagonisti di un ritrovato sentire come cittadini del mondo. Può l’arte contribuire a questo? Noi crediamo di sì e le belle parole del messaggio ad artisti ed intellettuali, rivolto dal Ministro della Cultura greco, che Gabriele Simongini cita a conclusione del suo emozionante saggio, sono illuminanti.
Come è stato detto, non è la cultura che fa le rivoluzioni, ma senza cultura non ci sono rivoluzioni, e compito dell’arte, oggi, è aiutarci a percepire, attraverso le opere, il mondo intorno a noi in tutta la sua complessità.
A conclusione vorrei raccontare il mio legame personale con Antonio Fraddosio, risalente alla fine degli anni Novanta del secolo scorso e in un contesto totalmente diverso. Antonio lavorava presso il Provveditorato dello Stato e io ero impegnata nel recupero degli edifici e del parco di Villa Torlonia. Lui mi contattò perché, grazie ad alcune vecchie foto conservate nell’archivio del quotidiano “Il Tempo”, aveva individuato in alcuni mobili giacenti in un magazzino, quelli che arredavano la camera da letto del principe Giovanni Torlonia e che, nel 1925, era divenuta di Benito Mussolini. Il duce, infatti, aveva avuto dal principe in affitto, ad un canone simbolico, tutta la villa di via Nomentana e vi risiedette con la famiglia fino all’arresto avvenuto nel luglio 1943. Con Antonio Fraddosio e con l’allora sindaco Francesco Rutelli, si decise di restaurare i mobili e di ricollocarli nella sede di provenienza, contribuendo con un tassello ulteriore al recupero del complesso e della sua memoria storica. Così i mobili sono stati ricollocati e fanno bella mostra nel Casino nobile della Villa, in un percorso tra arte e storia che, senza alcun intento nostalgico, ha voluto ricostruire tutte le fasi di un importante periodo della nostra storia. Questo episodio, certamente minore rispetto ai tanti ed impegnativi lavori condotti nella Villa, è a mio parere importante come dimostrazione di una corretta collaborazione tra istituzioni, di un metodo di lavoro che, nel rispetto delle competenze, mira al bene del nostro patrimonio culturale. Da quella collaborazione è nata l’amicizia e la “scoperta” di un Antonio Fraddosio artista e mi piace ricordare che questa è una delle ultime mostre da me organizzate come direttore del Museo Carlo Bilotti, quasi un suggello alla mia quarantennale presenza al Comune di Roma, tra conservazione e ricerca.

 

Alberta Campitelli

La parete vivente

La presentazione al catalogo di una mostra d’arte figurativa, scritta non da un critico d’arte ma da un drammaturgo, introduce sicuramente un punto di vista non usuale nel processo di analisi estetica. Ma in questo caso consente di riassumere più compiutamente l’itinerario artistico di Antonio Bernardo Fraddosio.

Ho conosciuto Fraddosio in una maniera abbastanza singolare. Anni fa avevo fondato con alcuni amici un’associazione culturale, che, come prima, ambiziosa iniziativa, organizzò una mostra di pittori siciliani[1] a Roma, Messina e Palermo, per poi trasferirsi a New York, nella sede della Columbus Citizens Foundation. L’architetto Fraddosio era stato incaricato dalla ditta che curava l’allestimento a Roma di rendere funzionale alle esigenze espositive l’Acquario Romano. Era una sfida quasi impossibile (sempre persa, prima di allora, da chiunque aveva tentato di piegare la singolare struttura a finalità diverse da quelle per le quali era stata ideata, peraltro mai soddisfatte), per la “prepotenza” del manufatto, a causa soprattutto dei materiali utilizzati (la ghisa, tanto cara all’architettura degli inizi del Novecento), e della particolare disposizione dei locali. Ho memoria ancora viva di infausti spettacoli di prosa, con gli attori smarriti in uno spazio scenico improbabile, di concerti inascoltabili per la pessima acustica (la ghisa delle colonne e il vetro della copertura non sono ideali, com’è noto, per la risonanza degli armonici…), di mostre, infine, anche di opere eccelse, che, in quel contesto, naturalmente ostile, si trasformavano in esauste imitazioni di se stesse.

Ebbene, Fraddosio superò la temibile prova con una felice intuizione creativa, rendendo quella mostra non solo godibilissima in sé, con i quadri collocati e illuminati in modo tale da consentirne un’agevole visione, ma anche uno degli eventi più interessanti nella storia espositiva della città.

La felice intuizione creativa fu un… tubo! Sì, un lunghissimo, luccicante tubo di alluminio snodato che, partendo da un gigantesco parallelepipedo piantato nel giardino di fronte all’ingresso, come fosse il ramo di un fantastico rampicante, entrava nella hall, si inerpicava lungo la scala, attorcigliandosi su se stesso a delimitare gli spazi destinati ai singoli artisti, per poi ridiscendere e tornare al punto di partenza. Lo spettatore non doveva fare altro che lasciarsi guidare dall’… invadente tubo.

Ho voluto ricordare l’episodio anche per introdurre un elemento di valutazione dal quale non si può prescindere nell’esaminare la produzione più strettamente artistica di Fraddosio, e cioè la sua capacità, in parte innata, in parte coltivata grazie agli studi di architettura, di “organizzare” lo spazio. Le sue opere, sia le monumentali sculture sia le “carte” in mostra a Lucca, hanno questa caratteristica, di inglobare, nei materiali o nei segni, lo “spazio”, ciò che comporta, per la nota equazione einsteiniana (che si vorrebbe messa in discussione dal recente esperimento con i neutrini, più veloci della luce), anche un rapporto organico con il “tempo”.

In una precedente occasione, avevo scritto un pezzo, a proposito di una importante opera (Tensioni), che ripropongo, in quanto significativo di quelle che subito mi apparvero le connotazioni essenziali del suo modo di fare arte:

«La parete è qualcosa che divide o, al contrario, racchiude, che disgiunge o, invece, riunisce.
Taglia lo spazio e lo raccoglie. Sembra poter conciliare gli opposti.
Ha una parte frontale, che va decorata, ricoperta, con quadri, rilievi, o stoffe preziose, e una nascosta, misteriosa, angosciante, come l’altra faccia della luna. Può essere sottile quanto un foglio di pergamena, come nelle case giapponesi, o un muro possente, come nelle costruzioni medievali. Piegarsi ad arco, dispiegarsi come una vela, e sostenere le svettanti cupole delle cattedrali.
Estendersi per chilometri, e smembrare popoli, territori, dando agli uni, quelli che la muraglia imprigiona al proprio interno, l’illusione di una difesa insormontabile, e suscitando negli altri, quelli lasciati fuori, l’irresistibile impulso a superarla, aggirarla, abbatterla.

Quello che non può fare, non ha mai fatto, è esistere per sé. Inimmaginabile una parete senza una struttura da sostenere, uno spazio da dilatare o rinserrare, uomini da escludere o da proteggere.
Questa che Fraddosio ha voluto intitolare Tensioni lo è. Una parete che racchiude in se stessa lo spazio, che resiste, si contrae, si addensa, si raggruma, si espande, per esplodere infine, in alcuni punti della superficie, là dove trova un’incrinatura e può aprirsi un varco “dall’altra parte”. Una parete-totem, di fronte alla quale diventa inutile porsi la domanda di cosa nasconda, da chi ci allontani, una parete-specchio, che riflette le nostre inquietudini e ci restituisce l’immagine delle nostre deformità, quelle che tentiamo di celare agli altri, diventando noi stessi una invalicabile parete».

 

Le scenografie

Le prime uscite “pubbliche” di Fraddosio sono le scenografie da lui realizzate per alcuni spettacoli teatrali. Nel 2003, per il mio testo L’odore, diretto da Augusto Zucchi, ideò per la cella[2] una piramide di letti a castello che formavano una gabbia nella gabbia, e svettavano verso una finestrella posta in alto, quasi anelassero anch’essi alla libertà, e sulla quale si arrampicava, con agilità felina, il protagonista più giovane. Costruì poi una sorta di monumento, un lavello-bugliolo che ho descritto in seguito nel romanzo tratto dal dramma, felice esempio di feed back reciproco: «Un piccolo monumento – nel suo genere – partorito dalla perversa fantasia di qualche architetto carcerario, una sorta di cubo compatto che, con un gioco di incastri, diventava lavabo-lavello, tavolo da pranzo e bugliolo.
Sì, facendolo scorrere o girare in un modo piuttosto che in un altro, poteva essere usato, di volta in volta, per le necessità fondamentali dell’esistenza.
Rispettava anche la gerarchia delle funzioni. La parte superiore era destinata alla bocca, alla testa, al busto, e quella inferiore alle “vergogne”, anche se in un contesto come quello, in cui era bandito ogni diritto a un minimo di intimità, il termine perdeva ogni significato. Era una potente raffigurazione – una sintesi feroce quanto efficace – dell’essere umano ridotto alle sue attività elementari: un tubo, da un’estremità del quale entra il cibo, che viene espulso dall’altra parte.

Quel luogo era stato pensato, in tutto il suo tetro squallore, non soltanto – e, comunque, non era questo lo scopo principale – per tenere sotto controllo persone pericolose, ma soprattutto per far capire loro che, oltrepassata una porta, che non era quella del carcere, ma era dentro, una soglia invisibile che stava dentro il cervello, si diventava delle nullità. Quello spazio, così concepito e arredato, aveva, infatti, la finalità di far sentire coloro che lo abitavano, non più uomini, con emozioni, idee, sogni, ma soltanto funzioni, quella del mangiare, del dormire e dell’evacuare»[3]. Nella camera da letto vi era infine una splendida invenzione, la spalliera, realizzata intrecciando insieme due antiche testiere in ferro, che formavano anch’esse una gabbia.

La scenografia contribuì decisamente al successo dello spettacolo, ma, all’interno di esso, lo scultore Fraddosio riuscì a esprimersi in totale autonomia, senza entrare in conflitto, come spesso accade quando gli artisti si prestano al teatro, con le esigenze sceniche. La mostra dei bozzetti e dei disegni preparatori testimoniava il lungo e approfondito lavoro di ricerca, ma anche la perfetta consonanza espressiva del suo mondo interiore con il testo.

Ripetemmo il felice esperimento in altre due occasioni e, in entrambi i casi, Fraddosio procedette in maniera analoga, assecondando sì le legittime richieste dei registi, ma contribuendo anche, con una sua precisa lettura, all’interpretazione dei drammi messi in scena. In Agata[4], il regista aveva voluto una scena “aperta”, che suggerisse semplicemente i vari ambienti, e che soprattutto desse piena libertà agli attori di muoversi nello spazio, reinventandolo a seconda delle esigenze interpretative. La struttura realizzata da Fraddosio, una semplice intelaiatura, consentiva tutto questo e, come per magia, diventava di volta in volta la camera da letto dei due innamorati, un obitorio, una discoteca, il bunker dove si consumava la vendetta finale della protagonista.

L’ultimo lavoro in cui abbiamo finora collaborato, forse il più impegnativo, è stato Amleto in prova, dato al Festival dei Due Mondi di Spoleto nel 2004[5]. Fraddosio aveva concepito una scena di grande suggestione, una sorta di spazio classico, al centro del quale troneggiava una gigantesca corona regale, da cui si sviluppava una scala che saliva, avvitandosi su se stessa come una spirale, verso l’infinito. Ma non fu possibile realizzare questa idea, dato che lo spettacolo era allestito all’interno della Rocca degli Albornoz, un contesto fortemente caratterizzato dal punto di vista architettonico, che perciò non tollerava una struttura così indiscreta. Fraddosio optò allora per una soluzione puramente funzionale, un’impalcatura che, da una parte, reggeva la video-wall su cui venivano proiettate le riprese delle prove dell’Amleto[6], e, dall’altra, sosteneva una grande e variopinta quantità di costumi, quelli che gli attori man mano indossavano.

Fraddosio ha poi proseguito la sua collaborazione con Zucchi in uno spettacolo da lui diretto e interpretato, costruito su due testi dello scrittore-psichiatra argentino Eduardo Pavlovsky. In questo caso, trattandosi di un monologo, la scena era una scultura diagonale, di forte impatto visivo, di fronte alla quale l’attore recitava, salvo poi, alla fine, strapparne una parte, dietro la quale apparivano i volti dei desaparecidos a cui si accennava nel dramma.

Mi sono dilungato su questo aspetto dell’attività creativa di Fraddosio perché in esso è evidente, in maniera spiccata, una delle caratteristiche delle sua arte: la capacità “rappresentativa”. Voglio precisare subito che non si tratta di un elemento esteriore, ma dell’essenza della sua modalità espressiva. Le sue opere, piccole o grandi, sculture o pitture, si dispongono nello spazio in maniera da “rappresentare” se stesse, in almeno tre accezioni evocate dal termine: evidenziare, simboleggiare, interpretare. Qualsiasi opera d’arte figurativa traduce in immagine, e perciò, in questo senso, rappresenta, la realtà, fisica o mentale, volti, paesaggi, Stilleben, o gli «stati di mente», che, come sostiene T. S. Eliot, «ci sono incomprensibili», ma, nel metterla in evidenza, la modifica, eliminandone la capacità distruttiva: «Human kind/cannot bear very much reality»[7]. Per poter fare ciò trasforma la realtà, quale che sia, ripeto, fisica o mentale, in un simbolo, in qualcosa che acquista, quindi, un significato ulteriore. Da ultimo, poiché l’arte, quella autentica, non può mai prescindere dalla realtà, anche quando sembra volerla eliminare alla radice, allora ecco che, per catturarla, è costretta a interpretarne i codici più segreti, a decifrarne la logica intima. Per non restare nel vago, tutto ciò è rintracciabile in qualsiasi grande opera. Basti pensare a una tela di Vermeer, la famosa Lattaia, o l’ancor più famosa (grazie anche al film che ha lanciato Scarlet Johansson) Ragazza con l’orecchino di perla, per ritrovarvi i tre elementi: vi è la realtà tout-court, la lattaia e la ragazza, trasfigurate, però, da qualcosa che rende “quella” lattaia o “quella” servetta personaggi paradigmatici, quasi mitologici, che si pongono di fronte allo spettatore anche come interpreti della scena che viene rappresentata. L’opera in cui questa polivalenza di atteggiamenti trova la sua massima esaltazione è il capolavoro di Velasquez Las Meninas, forse l’opera intellettualmente più complessa di tutta la storia della pittura, dove il pittore rappresenta se stesso mentre dipinge dei personaggi che si mettono in posa, guardandosi in uno specchio, dal quale l’artista coglie le immagini riflesse, quelle che lui ha disposto così come voleva “riprenderle”, e altre apparse casualmente (la coppia reale che si intravede in un altro specchio alle spalle del gruppo ritratto), per trasferirle sulla tela.[8]

Ciò avviene, lo ripeto, ogni qual volta un artista si pone di fronte alla realtà che vuol capire, al mistero che vuol “fronteggiare”[9], per organizzarlo in una forma leggibile (almeno in parte). Come nelle opere di grande dimensione, quasi delle costruzioni architettoniche, sulle quali mi soffermerò soltanto per gli aspetti che riguardano l’approccio ai materiali, da parte di Fraddosio, o meglio il modo con cui, da materiali informi object trouvés, o semplici scarti industriali o vegetali, come cortecce di alberi, legno corroso dal tempo, cartoni deformati dall’acqua, riesce, con un sapiente e paziente lavoro artigianale, a estrarre la forma che si portano dentro. Le due strutture orizzontali, soprattutto (già viste all’Archivio di Stato all’Eur, nel 2007 e ripresentate a… ), intitolate La materia del tempo e Sconnessione, sarebbero inconcepibili se dietro non ci fosse la capacità progettuale di Fraddosio, che utilizza il suo bagaglio professionale, mettendolo umilmente al servizio dell’urgenza espressiva. Le due sculture (degli “altorilievi”, in effetti) sono un magnifico esempio, trionfale direi, della perfetta fusione fra i momenti dell’ideazione dell’opera, della realizzazione del manufatto e della “trasfigurazione” di esso in materia simbolica. Sono forme strutturate e destrutturate allo stesso tempo. Come se l’artista distruggesse una forma per rintracciarne una più profonda, e riorganizzasse i materiali intorno a questo nucleo, prima celato e che ora si disvela pienamente. Scolpisce lo spazio, più che la materia, in qualche caso addirittura il silenzio, catturandolo e raggrumandolo sulle tormentate superfici delle sue carte o negli anfratti delle sue Lacerazioni (titolo ricorrente). Per dirla ancora con un verso di Eliot, riesce a creare: «a grace of sense, a white light still and moving»[10].

 

Le “carte nere” di Lucca

Devo dire subito che l’allestimento di questa mostra è quanto mai sapiente. Aver sistemato i disegni alla fine del percorso espositivo, mette in condizione lo spettatore di subire, prima, l’impatto visivo con questi “grumi di luce nera” rappresi sulla carta o sul legno, e poi, una volta elaborate dentro di sé le emozioni provate, di rintracciare la “scala” programmatica che porta a quei risultati (e che, una volta usata, secondo la vecchia, sempre utile metafora, deve essere fatta sparire), ma gli intima anche una rivisitazione della mostra, in modo da rintracciare, sotto la texture, in questa seconda più consapevole lettura, la struttura portante, concettuale dell’opera. Sbaglia, infatti, chi pensa che l’artista crei senza un progetto. Se tale momento prevale, però, il risultato è freddo, non emoziona; se, al contrario, sparisce del tutto, tanto da non poterne neppure presupporre l’esistenza, allora l’opera appare come frutto di puro istinto, quasi partorita direttamente, come in certe stampe fotografiche sperimentali, un tempo in auge, per “contatto” fra l’oggetto e la carta sensibile. In questo caso, fra le «undisciplinated squads of emotion»[11] e il supporto materiale, carta, tela, legno, pietra, acciaio, terra, plastica, vetro, qualsiasi cosa cioè in grado di occupare lo spazio fisico.

Nelle opere esposte a Lucca , il progetto che sta sotto è ben celato e solo l’onestà intellettuale dell’artista, del gallerista e anche dell’editore consente di trovarne le tracce. I particolari ingranditi nelle prime pagine del raffinato catalogo, secondo una suggestiva idea di Vittorio Giudici, nel solco peraltro della sua tradizione[12], danno modo di penetrare subito, con una sorta di montaggio accelerato delle immagini, nelle pieghe intime del corpo delle opere. La visione dei disegni – che attengono peraltro esclusivamente alla preparazione delle scenografie, ma, visti autonomamente sono allo stesso tempo opere a se stanti e una sorta di “sinopia” delle “carte nere” – dà la misura di quanto sia elaborato il lavoro che sta dietro il quadro, il quale non è affatto frutto di improvvisazione, ma di un’accurata ricerca espressiva, secondo il (mai invecchiato) criterio leonardesco che per poter disegnare un braccio devi conoscere bene la struttura anatomica nascosta sotto la pelle.

Questo metodo conferisce una immediata classicità alla produzione di Fraddosio, molto evidente nelle grandi opere sopra ricordate. In esse è lampante l’organicità del rapporto fra la progettualità (la struttura anatomica sottocutanea) e l’esito finale.

Anche le “carte nere” esprimono questa duplicità che le rende, per un verso, enigmatiche, oscillando l’interpretazione fra l’uno e l’altro significato della “rappresentazione” che esse danno della realtà, e, per un altro, di straordinaria leggibilità, identificandosi immediatamente in esse la “pregnanza” che la materia stessa di cui sono fatte esprime.

Da un punto di vista iconografico, verrebbero in mente i Cretti di Burri, ma sarebbe sbagliato. Burri è un artista fondamentalmente concettuale, anche quando sembra inclinare verso una sorta di tardo-espressionismo.

Se si vuol trovare un punto di riferimento meno opinabile, bisogna pensare a Kiefer, il più grande artista moderno, dopo Bacon, nel quale la programmaticità dell’intenzione, talvolta smaccata, trova sempre la sua naturale risoluzione nella potenza espressiva delle opere, con un perfetto controllo dell’elemento randomico, pur presente in quasi tutte.

Ma se dovessi citare qualcuno che opera in maniera analoga (se fosse ammissibile un paragone del genere), più che a un artista figurativo penserei a un compositore, Xenakis, anch’egli architetto, che ho già ricordato: le sue partiture hanno una ferrea struttura, ma, proprio per questo, riescono a esprimere tutto il caos interno, il mistero, quasi sempre orrendo, in tutta la sua brutalità.

Anche sotto la superficie delle carte esposte a Lucca si può indovinare una sorta di pentagramma. C’è un elemento di casualità (il colore mischiato col bitume crea effetti incontrollabili), ma è imbrigliato nella gabbia formale. E queste opere pretendono di disporsi in sequenza, esattamente come una composizione musicale, pur mantenendo una loro autonomia espressiva. Con in più l’elemento della spettacolarizzazione, per cui l’artista ricostruisce lo spazio, lo interpreta, inserendovi dentro anche il tempo della fruizione, addirittura le pause.

A volte affiorano parvenze di immagini riconoscibili, come il negativo di un paesaggio lunare, o terreno, ma visto dallo spazio, ecco un fiume, anfratti, la natura violentata, poi ci rendiamo conto che è solo la nostra naturale predisposizione a rintracciare immagini familiari nelle cose che vediamo – come quando riconosciamo un volto in una nuvola, o in una macchia di umidità sulla parete – che ci porta a quelle identificazioni. L’universo ha una forma estetica? Xenakis è convinto di sì. Ma, a mio parere, è una forma casuale, e nello stesso tempo ripetitiva (i frattali); è difficile che vi siano “scarti significativi” dalla norma, che sono invece la caratteristica, e la grandezza, dell’opera d’arte umana. È l’uomo che dà una forma leggibile all’universo.

Sia Xenakis che Fraddosio si misurano costantemente col “senso del mistero”, che, come sostiene Zanussi, è quello “che unisce l’arte e la scienza”[13]. La differenza sta nel fatto, a mio avviso, che mentre la scienza tenta di penetrare il mistero, per quanto possibile, l’artista, invece, conscio non solo della sua insondabilità, ma anche della sua imprescindibilità, come tale, ai fini dell’esistenza, si limita a “fronteggiarlo”, o, al massimo, a organizzarlo in una forma che lo renda meno temibile. Nel caso di Fraddosio, le sue “carte” sono, come ho detto già, dei grumi di colore nero, dai quali ogni tanto emerge un raggio di luce, ma non vi è nulla di improvvisato nella realizzazione: sotto l’apparente bruitisme vi è un lavoro di riflessione, di progettazione (da scienziato), con cui tenta appunto di resistere alla potenza del mistero, che però rimane tale.

 

La bandiera nera nella gabbia sospesa

È il titolo della grande opera esposta all’Arsenale, nel Padiglione italiano della Biennale di Venezia, allestita da Sgarbi, è una sorta di presenza immanente e imprescindibile.

Si tratta di una grande “bandiera nera” (fibro-legno modellato, cemento, catrame e asfalto liquido) costretta in una gabbia di ferro sospesa a un cavo. Come se fosse stata bloccata mentre sventolava trionfalmente. Imprigionarla, rinchiuderla, frenarne il moto, è andare contro la sua natura. Viene in mente subito “the sough and swing of a mighty wing/The prison seemed to fill[14]

La bandiera non è ripiegata, infatti, ma sta continuando a ondeggiare e l’effetto, quasi paradossale, è che la gabbia, nonostante gli ampi spazi fra le sbarre, sembra avere imprigionato anche il vento che la faceva fremere. È una sorta di “contrappunto negativo” alla trionfale Vittoria di Pevsner o, se mi è consentita una metafora[15], potrebbe essere uno degli albatros di Baudelaire, «vastes oiseaux des meres», con le immense ali ricoperte di bitume, che le appesantisce impedendogli di riprendere il volo.

La gabbia può essere in movimento o restare immobile. Date le dimensioni e il peso, essendo semplicemente agganciata a un cavo, ha, comunque, delle inevitabili, leggere vibrazioni, le quali accentuano l’impressione che, da un momento all’altro, la “prigioniera” possa liberarsi, che l’energia compressa, a un tratto, debba esplodere. Del resto, sempre Eliot:

«But neither arrest nor movement. And do not call it fixity,/Where past and future are gathered. Neither movement from nor/towards,/Neither ascent nor decline»[16]

 

Rocco Familiari

Note:
[1] La Sicilia è un arcipelago, a cura di Lucio Barbera e Gabriele Simongini, Roma, De Luca, 1998.

[2] La scena era divisa in due parti, fortemente integrate però, una cella da un lato e una camera da letto dall’altro, al centro una colonna-scultura che divideva ma anche collegava i due ambienti.

[3] Rocco Familiari, L’odore, Venezia, Marsilio, 2006.

[4] Teatro di Messina, 2004/2005, regia di Walter Manfrè, con Vanessa Gravina.

[5] Regia di Mario Missiroli, con Flavio Bucci.

[6] Nel testo occupano ampio spazio le prove che i personaggi-attori fanno sul testo shakespeariano.

[7] «Il genere umano/non può sopportare troppa realtà» (T. S. Eliot, Four Quartets).

[8] Questa, per la verità, è la famosa lettura di Michel Foucault (nell’introduzione a Les mots et les choses, Parigi, Gallimard, 1966), estremamente suggestiva, ma poco probabile nel punto in cui sostiene che la coppia reale fosse dietro uno specchio-spia, vale a dire una lastra trasparente che consentiva di vedere, ma non di essere visti, e che solo il gesto del personaggio all’estrema sinistra del quadro, Nieto, che scosta la tenda facendo entrare la luce, fa scoprire. Il fatto è che all’epoca gli specchi erano vetri ricoperti da uno strato d’argento, perciò non trasparenti.

[9] L’espressione è del compositore greco Xenakis, anch’egli, fra l’altro, architetto (lavorò con Le Corbusier alla costruzione della Cappella di Ronchamp, quella nella quale, non a caso, l’architetto razionalista distrusse il suo stesso codice normativo).

[10] «Una grazia del senso, una luce bianca che sta ferma e si muove» (T.S. Eliot, Four Quartets).

[11] «Indisciplinate squadre di emozioni» (T.S. Eliot, Four Quartets).

[12] La sua La casa Usher ha pubblicato alcuni fra i più bei libri dell’editoria italiana, supportata a volte da quello straordinario fotografo che è Buscarino.

[13] Krzysztof Zanussi, in una conversazione con il filosofo ortodosso Vladimir Legojda, alla Biblioteca dello Spirito di Mosca, il 18.1.2011, (Krzysztof Zanussi, L’Europa, l’arte, l’uomo, in «La Nuova Europa», 2, 2011).

[14] «Il fremito di un’ala possente entrò a un tratto nel carcere» (O. Wilde, The Ballad of Reading gaol. La splendida traduzione del verso è di Ariodante Marianni, che curò anche un’edizione della ballata per l’Istituto Internazionale del Disco, recitata da Enrico Maria Salerno).

[15] Krzysztof Zanussi (nella conversazione già citata) afferma che la nostra generazione è stata educata alla cultura dell’“analogia” della “metafora”, cultura che oggi i giovani sembrano avere smarrito.

[16] «Ma né arresto né movimento. E non la chiamate fissità./Quella dove sono riuniti il passato e il futuro. Né moto da né verso,/ Né ascesa né declino» (T.S. Eliot, Four Quartets – la traduzione di questo passo, come dei precedenti citati, è tratta da T.S. Eliot, Quattro Quartetti, trad. it. di Filippo Donini, Milano, Garzanti, 1976).