interviste

L’artista pugliese Antonio Bernardo Fraddosio ha svolto a lungo l’attività di architetto e scenografo. Da oltre vent’anni si dedica esclusivamente alla scultura e alla pittura nel suo studio di Tuscania. Questa scelta radicale è legata a forti motivazioni ideali. Per Fraddosio, citando Picasso, «l’artista è un uomo politico costantemente vigile davanti ai drammi del mondo».

Antonio, il tuo percorso artistico si sviluppa attraverso cicli collegati e sempre orientati su temi universali. “Il breve termine governa il mondo” è il sesto ciclo. Come tu stesso affermi, i cicli si susseguono, si sovrappongono, si intersecano ma non si chiudono mai. Proprio come l’arte. Ci spieghi in che cosa consistono e qual è il collegamento tra i tuoi lavori?

C’è un filo rosso che lega gli ultimi venti anni del mio lavoro e che unisce ogni ciclo di opere e ogni opera che ho realizzato. Si tratta di una specie di libro con cicli che rappresentano capitoli e opere che rappresentano pagine. I cicli hanno un inizio, sono tra loro interconnessi ma, trattando temi universali, non si concludono mai. Sono storie senza un finale. Nella mia produzione non c’è un’opera che non appartenga ad uno dei cicli o che addirittura non faccia parte di più cicli contemporaneamente. I cicli sono sempre espressione di quello che si muove intorno a me e, contemporaneamente, dentro di me e tutte le opere che creo sono la formalizzazione del mio pensiero.

 

“Mater Matuta” è un’opera da te realizzata circa un anno fa ma che hai deciso di mostrare al pubblico proprio in questo periodo di isolamento attraverso il tuo canale di youtube. Come nasce il progetto e quindi l’idea di proporla attraverso il web?

La “Mater Matuta” è un’opera che appartiene al ciclo “Il breve termine governa il mondo”. La “Mater Matuta” è un’antica divinità italica venerata anche in epoca romana e successivamente fino ad oggi nella figura della Madonna. L’immagine iconografica rappresenta una donna con un bambino tra le braccia. È l’aurora, la nascita della vita, la nascita del mondo. L’opera, in realtà, è uno studio preparatorio a cui seguirà una scultura di grandi dimensioni. Ho realizzato questo lavoro scolpendo alla maniera antica un blocco di marmo di Carrara opponendomi, già nella scelta del materiale, al “breve termine”. Il marmo è materia antica, che si forma nel tempo e rimane nel tempo. Se osservi l’opera, una donna nell’atto di procreare, non ti sfuggirà che nel rappresentare il suo corpo e il viso del bambino, ho utilizzato differenti linguaggi artistici che nei secoli si sono avvicendati: il verismo classico a rappresentare la giovinezza e la vigoria, l’espressionismo a rappresentare la decadenza e la vecchiaia, l’informale a rappresentare l’inizio e la fine, la materia da cui nasce tutto e in cui tutto muore. La base, che è parte integrante dell’opera, rappresenta il cerchio dell’esistenza umana e la sua continuità. Il movimento circolare dell’opera è lento, a tratti incerto, con brevi impercettibili pause ma continuo. È la fatica del nostro stesso esistere. Ma la testa del bambino che appare tra la materia e un corpo di donna è lì a rappresentare la certezza di un domani da costruire. Tutto questo è il senso che lega l’opera al ciclo.

Io sono restio ad eccedere nell’uso della tecnologia per rappresentare un’opera artistica, tuttavia ho ritenuto di pubblicarla sul mio canale youtube (https://www.youtube.com/watch?v=IjQLJx5-lgg) perché in questo momento storico, drammatico, che ci costringe a disumane limitazioni della nostra stessa libertà, può rappresentare l’occasione di riflessione per cambiare con energica positività un mondo che si sta rivelando sbagliato. L’opera non auspica la ripresa delle nostre esistenze sospese così come ci verrà imposto a poteri superiori che neanche conosciamo, ma una vera e propria rinascita nostra, di tutti. Dopo non basterà essere resilienti. Occorrerà essere rivoluzionari.

 

“Quello che resta dello sviluppo” è il ciclo che comprende alcuni dei tuoi lavori tra cui l’installazione “Le tute e l’acciaio” che è stata esposta alla Galleria d’Arte Moderna di Roma. L’opera, la più rappresentativa del ciclo, è dedicata al popolo di una città del Sud dell’Italia: Taranto. Cosa rappresenta questo progetto, in particolare oggi che è la Giornata Mondiale per la Sicurezza e la Salute sul Lavoro?

Sono pugliese e conosco bene quel territorio fin da prima della nascita del siderurgico. Ho assistito al progressivo lento inesorabile degrado ambientale e umano di quel territorio. In quell’impianto, che chiamano stabilimento, la sicurezza e la salute sul lavoro è inesistente. Anzi direi che lì si muore sul lavoro per incidenti di ogni tipo e anche per malattie contratte nel tempo lavorando in quella fabbrica. Praticamente si scambia, in spregio assoluto della nostra Costituzione, il lavoro con la vita. Comunque quello che accade in quella città non è un episodio territoriale ma un problema globale che ci coinvolge e colpisce tutti. Questo è il messaggio contenuto nell’installazione “Le tute e l’acciaio”. Vorrei che la Giornata Mondiale per la Sicurezza e la Salute sul Lavoro non fosse un giorno della memoria, ma un quotidiano impegno per impedire che di lavoro si continui a morire.

 

Cosa ha determinato il passaggio dal ciclo legato alla tragedia dei lavoratori dell’Ilva a quello che comprende la “Mater Matuta”?

Avevo da poco smontato l’installazione “Le tute e l’acciaio” e continuavo a riflettere su quanto un vasto territorio, in nome dello “sviluppo”, era stato gravemente danneggiato e quasi distrutto, e come questo si dovesse considerare un tema universale. Poiché quello che accade a Taranto accade, sempre più spesso, ovunque. Ero in auto e ascoltavo un programma radiofonico quando la trasmissione fu interrotta per comunicare che il ponte sul Polcevera di Genova era crollato. Collassato in pochi secondi. Una tragedia apparentemente imprevedibile la cui portata in termini di vite umane ancora non si apprezzava. Ho studiato architettura nei primi anni settanta e ricordo bene che, nel corso di tecnologia, quel manufatto d’ingegneria lo avevamo analizzato in ogni sua parte, soprattutto per l’innovazione tecnica utilizzata: il cemento armato precompresso. In circa sessanta anni il ponte era passato da un esempio di moderna concezione tecnologica a massa informe “informale”. Un groviglio di macerie: ferro e cemento non più ordinato in una relazione di complessi calcoli matematici, ma in caotico ammasso che imprigionava vite umane.

Non mi fu difficile individuare immediatamente una stretta relazione con l’impianto del siderurgico di Taranto; anche quello, in fondo, dopo sessant’anni si era trasformato da esempio di sviluppo in uno strumento di morte e distruzione. Sessant’anni sono meno della vita media di un essere umano, sono meno di un attimo della vita dell’umanità. Come è possibile che nonostante i progressi realizzati dall’uomo in duecento anni accada che gli effetti di questo progresso si risolvano in una autodistruzione? Semplicemente perché non si trattava di reale “progresso”, bensì solo di “sviluppo delle tecnologie”. Lo sviluppo della tecnologia, se non è accompagnato da una adeguata crescita del pensiero, produce inevitabilmente danni. Ormai è sempre di più il breve termine a governare il mondo perché è il profitto che governa il mondo. Il profitto richiede tempi rapidi per avere senso. Negli ultimi due secoli il profitto si è appropriato di qualunque manifestazione della vita umana e anche dell’ambiente condizionandoli prima e tentando di sottometterli oggi.

Così nasce questo ciclo in continuità con il precedente e in relazione con gli altri. (“L’animale sociale”, “La costruzione della distruzione”, “Resistenti oltre”, “Salvarsi dal naufragio”). Gli uomini non sanno più pensare in termini lungimiranti.

 

Come è cambiato e in che modo proseguirà il tuo lavoro dopo un periodo così difficile che ha colpito duramente tutti i settori, soprattutto quello artistico e culturale?

Di questa pandemia, non certo estranea all’inquinamento ambientale, non sappiamo niente; sono incerte e contraddittorie le informazioni che ci vengono date dai virologi, scienziati privi di sapienza, che ci hanno portato, senza apparente violenza, a cambiamenti radicali forse irreversibili a cui noi abbiamo il dovere di opporci. Le conseguenze, nei settori dell’economia, della cultura, ma anche del tempo libero saranno gravi, drammatiche. Ma ancor più grave sarà il danno che subirà la nostra essenza umana. Dovremo raccogliere tutte le nostre energie per non subire questo danno di incalcolabili proporzioni coscienti del fatto che qualcuno o qualcosa trarrà vantaggio da questo disastro annunciato. Ho cominciato quindi a lavorare ad un ultimo ciclo che ho intitolato “Superare  con la ragione gli stati limite ultimi”. È un termine, questo, che in ingegneria indica la condizione di un manufatto edilizio, superato il quale, si verifica il collasso di una struttura. Anche la psicoanalisi, successivamente, negli anni ’70, ha indicato con questo termine quella condizione della mente umana posta al limite tra la nevrosi e la psicosi. Questa è la nostra attuale condizione psico-fisica. Ma sarà la nostra capacità di ragionare ad impedirci di crollare fisicamente e impazzire. Non sarà facile realizzare opere che contengano questo messaggio, ma il mio lavoro artistico è questo e non vedo altro modo di continuare.

 

Intervista originale su AgrPress

L’artista pugliese racconta il significato della sua installazione “Le tute e l’acciaio” dedicata al disastro dell’Ilva. L’opera fa parte di una serie dal titolo eloquente: “Quello che resta dello sviluppo”. E, a proposito di sviluppo, spiega ancora lo scultore: «Non è sinonimo di progresso, ma, come affermava Pasolini, spesso è l’opposto»

Ho conosciuto Antonio Fraddosio alcuni anni fa, quando, dopo aver scritto una recensione dedicata ai suoi lavori Carte Bianche decisi di incontrare a Roma lui e il suo curatore Gabriele Simongini.  Da quell’incontro è nata una stima reciproca e per me un’occasione in più di conoscere da vicino un artista meridionale con idee nuove dedicate all’etica dell’ambiente.

I suoi occhi scuri desiderano raccontare attraverso le opere il rispetto per l’uomo e per la natura.  Questi sentimenti di amore per l’ambiente saltano subito all’occhio quando si vedono i suoi lavori. Recentemente Fradddosio ha fatto parlare di se con una installazione intitolata Le tute e l’acciaio, dedicata al grave problema ambientale sorto attorno al’Ilva di Taranto. L’opera è stata presentata fino al 5 maggio scorso, (con un bel catalogo curato da Simongini), a Roma nella Galleria d’Arte Moderna.

Per entrare nel vivo della sua poetica, possiamo senz’altro immaginare che l’esser nato  a Barletta  nel 1951, in Puglia, una terra baciata dal sole e bagnata da un bellissimo mare, sia stato il motivo che lo hanno spinto a denunciare il disastro ambientale che l’Ilva sta provocando in tutto il territorio. Solo un cuore grande e la capacità profetica di un artista può ispirare non solo i comuni cittadini ma anche i decisori politici a risolvere questi gravissimi problemi.

La presentazione della sua opera astratta e concettuale al grande pubblico del web è stimolante perché consente a tutti di immaginare dei luoghi o delle cose che sono frutto della nostra fantasia. Ci racconta com’è nato il desiderio di creare opere che denunciano l’inquinamento ambientale?

La crisi dell’ambiente è un problema grave e complesso che da tempo si sta evidenziando ma che negli ultimi anni ha dato luogo a manifestazioni veramente critiche. La complessità del problema mi ha da tempo impegnato in un’attenta analisi non solo sugli effetti ma, anche, soprattutto, sulle cause. È fuor di dubbio, ormai, anche per concorde affermazione di scienziati, che la crisi ambientale è opera del modo in cui si evolve lo sviluppo globale.  La mia ultima opera è un installazione dedicata ai gravi effetti che il degrado ambientale provoca al territorio e alle persone. Sono arrivato a questi miei ultimi lavori dopo una serie di cicli di opere che osservano l’evoluzione complessiva degli ultimi decenni. Quest’ultimo ciclo, di cui Le tute e l’acciaio fa parte, si intitola Quello che resta dello sviluppo. Dello sviluppo che non è sinonimo di progresso. Anzi, come affermava Pier Paolo Pasolini, è il suo opposto.

Difendere l’ambiente è un dovere morale. Ricordiamo che tra gli anni ’50 e ’60 anche i poeti Allen Ginsberg e Gary Snyder denunciarono l’inquinamento con le loro opere. Anche la Beat Generation presentò forme di rivoluzioni ecologiche ispirate a una visione spirituale. In Lei quanto c’è di spirituale nei suoi lavori?

Ritengo che l’arte e ogni manifestazione creativa dell’intelletto non possano prescindere da valori spirituali. Infatti i momenti emotivi dell’artista si manifestano attraverso la sua creazione e vengono recepiti dalla sensibilità dell’osservatore. È un collegamento tra anime.

La sua arte si avvicina molto a un tipo di filosofia ambientale, tipica del mondo nordico e anglosassone, infatti, la fotografa britannica Mandy Barker con i suoi scatti denuncia l’inquinamento della plastica. Lei quanto si sente vicino a questa filosofia?

Il mio lavoro non è semplicemente descrittivo e non si limita a denunciare il degrado ambientale in sé ma vuole indicarne le cause originarie. In molte mie opere come quelle appartenenti al ciclo La costruzione della distruzione, evidenzio il concetto di distruzione costruita: l’immagine caotica dell’opera, (materie spezzate, incastrate, tese al limite di rottura) è il frutto di un’attenta composizione. E riflette il fatto che la reale e sistematica distruzione dell’ambiente è realizzata attraverso una precisa e attenta strategia tesa solo al raggiungimento dei massimi profitti economici.

Le sue opere di notevole dimensioni inglobano il dramma dell’uomo, che imprigionato dalle lobby di potere, giorno dopo giorno lo uccidono?

 Certamente. Nel 2011 presentai alla Biennale di Venezia un’opera dal titolo La bandiera nera nella gabbia sospesa. Si tratta di una grande bandiera lacerata e pietrificata nel suo sventolare. È di colore nero, che simboleggia la più alta utopica forma di democrazia: l’anarchia. Quel vessillo non sventola più ed è lacerato, chiuso in una vera e propria gabbia sospesa che, attraverso una serie di ingranaggi, ne consente pochi rigidi movimenti. Al contrario, una bandiera dovrebbe sventolare morbida, libera.  In fondo il potere fa proprio questo: distrugge lentamente l’essenza stessa dell’essere umano.

Le sue idee trasformate in opere d’arte sono comprese in Italia?  O sono più comprese all’estero?

Le mie sono opere di arte contemporanea e chi le guarda deve far seguire all’eventuale impatto emotivo un’attenzione ai significati che sono universali e quindi trattano temi comuni a tutti.

Cosa vuol dire per lei creare un’opera?

Mi considero un artista militante: per me creare un’opera d’arte in questo momento storico, è soprattutto un atto politico di reazione a un potere economico-finanziario globalizzato che ci costringe sempre di più a una condizione servile. Mi piace, visto che lei ha citato la beat generation, ricordare le parole del poeta italo americano: Lawrence Ferlinghetti, per me uno dei più grandi. Parlando del significato della poesia, in una sua raccolta intitolata La poesia come arte che insorge, scrive: «Ci sono tre tipi di poesia. La poesia sdraiata che accetta lo status quo. La poesia seduta scritta dall’establishment che si lascia dettare le sue conclusioni a proprio vantaggio. La poesia in piedi, che è la poesia di impegno a volte grandioso a volte immane». Queste parole possono essere estese ad ogni forma di arte.

Cosa ricorda della Puglia quando l’Ilva non esisteva? Secondo lei fare per risvegliare un territorio afflitto da decine e decine di morti di tumore fra operai e no cosa dovrebbe fare lo Stato?

I miei ricordi di Taranto prima dell’Italsider sono netti, ancora vivi nella memoria. Taranto era una splendida città posata tra due mari e collegata alla terra da due ponti uno dei quali girevole. Immagini, colori e odori che da troppo tempo non esistono più. Era l’odore intenso del mare, era il colore di una terra ricca e verde ed era l’immagine di pescatori, di contadini, di una città di pietra dorata. Tutto questo non esiste più. Taranto è cresciuta solo intorno al polo siderurgico senza ordine, né progetto. I quartieri Tamburi e Paolo VI dove risiedono in prevalenza gli operai, sono stati costruiti a ridosso dell’impianto industriale e del cimitero. Una macabra coincidenza che rappresenta il lavoro, la vita privata e la morte. A Taranto tutto si mescola e a morire non sono solo gli operai ma anche i loro bambini, le loro famiglie.  Bisogna dire due cose gravi: quello che sta succedendo a Taranto è un genocidio, che qualcuno ha definito una strage di futuro. Anche il territorio sta morendo contaminato dalla diossina. Un’ordinanza comunale da anni vieta il pascolo e la coltivazione nel raggio di venti chilometri dall’impianto. Che fare davanti a tanta distruzione? Uno scrittore tarantino, Alessandro Leogrande, sosteneva la necessità di de-suderurgizzare Taranto cominciando, intanto, ad utilizzare le tecnologie per ridurre le emissioni venefiche e riducendo progressivamente la produzione. Nel contempo, iniziare un opera di bonifica del territorio utilizzando tutta forza lavoro disponibile sottratta al siderurgico. Certamente un piano economicamente impegnativo ma assolutamente necessario. Oggi il siderurgico non è più italiano, si chiama Arcelormittal e fa capo a una società franco-indiana che sicuramente nell’arco di alcuni anni abbandonerà la produzione. Vorrei concludere dicendo che la responsabilità di quello che succede a Taranto è di tutte le forze politiche che hanno governato fino ad oggi che, dimentiche dei principi fondamentali della Costituzione sulla quale hanno giurato, hanno creato un mostro.

(a cura di Carmelita Brunetti)

 

Intervista originale su Indygesto.com

Making of Antonio Fraddosio: “Compressioni esplosive”,
Produced by RAI Ital’y National Public Broadcasting Company
Series of artists in the process of creating art (2006/2013)
Directed by Angela Landini ,
Broadcast: May 2008, Arte & Design, RAI Culture and Rai3
Filmed in 2008 in Antonio Fraddosio’ Studio, Tuscania, Italy
Special thanks to RAI for providing Culture Net with a dvd copy of the FILM
Rai link: arte.rai.it/articoli/antonio-fraddosio-“compressioni-esplosive”/1622/default.aspx

Antonio Fraddosio, artist and architect, gives priority to the transformation of his architecture in sculptures, giving them the connotation of “place “, and forcing the viewer to look for a more dynamic and intimate relationship with the work of art. He uses humble materials, such as wood, iron, concrete, oxides. The figure is just the most significant stylistic movement conferred by the artist in almost monochrome surfaces, thanks to the light that creates strong contrasts, energy and movement. (Gabriele Simongini, art review).

A journey inside ideas, thoughts and poetics, of the many protagonists of Italian and international contemporary art.

Arte contemporanea, che mistero. Come si fa a prendere legno, cartone, stucchi, ferro, lamiera e a trasmettere il dolore, l’angoscia del tempo che passa e corrode escludendo l’opera dell’uomo – assente e impotente di fronte a questo processo – provocando distacchi e scissioni, aggrovigliando i sentimenti e i pensieri, lasciando dietro di sé muffa, ruggine, ruderi? Antonio Bernardo Fraddosio può fare questo ed altro, regalandoci grandi emozioni con la sua mostra personale, inserita nella splendida e imponente cornice dell’Archivio Centrale dello Stato (p.le degli Archivi, 27 – Roma Eur – h. 15-18), fruibile gratuitamente fino al prossimo 16 marzo.

L’arte contemporanea va guardata con molta attenzione, va osservata e soprattutto “sentita” perché il messaggio arriva meno all’occhio, colpisce direttamente l’anima. E’ forse meno immediato, certamente non meno intenso.
Ha un tono pacato, sorride lievemente. Non ho avuto bisogno di porre la prima domanda, siamo di fronte alle sue opere, già in comunicazione perfetta. Continua:
Il messaggio ognuno deve andare a cercarlo dentro di sé, anche se quello che sicuramente viene trasferito è una certa inquietudine, una realtà che viviamo tutti, che non è circoscritta al nostro microcosmo, ma è universale.

In questo “Groviglio” sembrano rincorrersi e contorcersi pensieri, emozioni, fa un po’ soffrire e l’occhio si perde tra quei fili che si rincorrono e si intrecciano, una vera “cartografia dello spirito”, come sono state definite le tue opere …ma tutta quella ruggine?
Non è certo colore, non lo uso. I bianchi non sono pigmentati, ma naturali e quindi stucchi e gessi, impasti che danno tonalità differenti. Queste sono ossidazioni, efflorescenze che lascio affiorare, lavorandole per dar loro una qualità estetica. E occorre del tempo per questo, bisogna aspettare. Ecco la materia del tempo…

E quindi quale è la materia del tempo, secondo te?
Il tempo ha sicuramente una sua una materia, che i fisici tentano di studiare, ma per me la materia del tempo è il giorno che segue un altro giorno, la notte, gli anni che passano, l’emergere del passato, il che vuol dire che qualcosa, o molto, “è stato”.

L’artista rappresenta quello che ha dentro, già nella scelta del tipo di materiale. Perché quindi legno, ferro…?
La mia ricerca è tutta imperniata sull’uso di materiali di recupero, materiale abbandonato nei cantieri o nei laboratori artigiani e che è stato lasciato lì, in balia dello scorrere del tempo. In questa società che divora e brucia rapidamente tutto, io cerco di recuperare questo materiale, che ha già un passato, la presenza del tempo all’interno di sé e lo sottopongo ad operazioni che enfatizzino tutta la sofferenza che nasconde al suo interno, che è poi la sofferenza interiore di tutti noi, fino a farne un’opera d’arte.

L’andare del tempo sembra spesso dimenticato nel nostro vivere quotidiano, quasi fosse dominio dell’uomo, quasi non dovesse finire mai. Questi “Ruderi metropolitani” dove sono stati disseppelliti, chi li ha abbandonati e perché?
Questa è un’opera iniziata e non finita oppure è un’opera che un tempo era stata realizzata e poi è stata distrutta da un qualche evento traumatico? Non sappiamo, è comunque un rudere, che potrebbe essere alla fine della sua esistenza o bloccato all’inizio della vita stessa. Un feto mai nato. Periferia devastata.
Periferia, deterioramento… pensiamo a Pasolini?
Pasolini è per me il più grande poeta del Novecento, oltre ogni polemica e altra considerazione. C’è una poesia che amo in particolare e che aderisce perfettamente a questa opera, ai Ruderi Metropolitani:
Io sono una forza del Passato.
Solo nella tradizione è il mio amore.
Vengo dai ruderi, dalle chiese,
dalle pale d’altare, dai borghi
abbandonati sugli Appennini o le Prealpi,
dove sono vissuti i fratelli.
Giro per la Tuscolana come un pazzo,
per l’Appia come un cane senza padrone.
O guardo i crepuscoli, le mattine
su Roma, sulla Ciociaria, sul mondo,
come i primi atti della Dopostoria,
cui io assisto, per privilegio d’anagrafe,
dall’orlo estremo di qualche età
sepolta. Mostruoso è chi è nato
dalle viscere di una donna morta.
E io, feto adulto, mi aggiro
più moderno di ogni moderno
a cercare fratelli che non sono più.

In questo video la legge Orson Welles durante le riprese de “La ricotta” in RoGoPaG, in mano il libro “Mamma Roma”:

Stiamo toccando un argomento che sta particolarmente a cuore alla Scuola Omero, la letteratura: ci sono altri autori che hanno influenzato la tua opera o che apprezzi in modo particolare?
Mi rifugio nei miei classici a cui sono molto legato, i narratori del 900 – non solo italiani, ma anche europei – perché sono profondi indagatori dell’animo umano. La letteratura più recente invece, tende a valorizzare le emozioni forti, e questo purtroppo vale anche per l’arte, cose che abbiano un grande impatto emotivo, senza andare a toccare sottilmente l’essenza, l’anima. Altri autori che mi hanno influenzato? Potrei citare Quasimodo per la luce… Montale per gli “inutili detriti” e poi Ungaretti :
“Di queste case/non è rimasto/che qualche/brandello di muro/(…)/E’ il mio cuore/il paese più straziato”
(S. Martino del Carso)

Mi sembra di cogliere una vena di tristezza profonda, che sottilmente inizia a pungere fin dalla prima opera qui in esposizione, passa attraverso le tue parole ed esplode poi in alcune rappresentazioni. Ad esempio questa: “Scissura”, che letteralmente significa divisione, discordia ed è comunque un chiaro segno di separazione insanabile di un insieme. Ti riconosci un po’ di pessimismo?
No. E’ la vita che è così. Noi siamo lacerati, anche se possiamo far finta di niente..
Qui, in “Scissura”, c’è uno strappo deciso, che sale, si riprende, provoca un distacco… ma c’è un filo che tiene, in tutti i sensi, anche tecnico, poiché appunto il materiale è sempre portato all’estremo, a un niente dal cedimento. Ecco: uno strappo, che potrebbe essere definitivo… però con un legame, anche sottile, che comunque resta.
Difficilmente opero dei distacchi definitivi, perché noi non ci stacchiamo mai definitivamente dalle cose, crediamo di staccarci, cerchiamo di farlo, ma il passato….
Vedi, in qualche maniera, noi riusciamo sempre a insabbiare le nostre ansie, più o meno. Cerchiamo di coprirle, di allontanarle. Ma ci sono, e io in questo modo le libero, anche portando il materiale stesso quasi al punto di rottura; c’è proprio un’opera che si chiama “Materia al limite”.
Al limite, come lo sono spesso anche le nostre vite. Perché ogni materiale ha un limite di sopportazione oltre il quale si strappa, si spezza.

Una curiosità sui nomi delle opere. “Rigonfiamenti”, “Fratture”, “Tensioni”, “Sfibramenti”…
Sono in parte ripresi dal vocabolario dell’ingegneria, che sanno identificare una condizione di un materiale, e che ritroviamo persino in medicina, ma sanno così ben adattarsi ai nostri sentimenti – anche in psicanalisi vengono usati gli stessi termini. E psicanalisi = mente = anima. Si chiude il cerchio, no?

Davanti a “Torsioni”, così complessa nella struttura e libera nello spazio, senza un riquadro, non iscritta in un perimetro geometrico, lasciamo di nuovo la parola alla poesia, alle emozioni che sa comunicarci Baldo Meo:
Nessun dio ha dormito in queste celle.
Tutti i giorni un messaggero opaco
invoca la parusia grandiosa.
Vicino all’ora delle stelle precoci,
da questa grata guardo
e medito sulle contorte assi
di una casa sconvolta dal vento.
Davanti non fiorisce l’oleandro
né si sparge l’odore della menta.
Non chiede di noi
l’ospite che abbiamo visto entrare.

Antonio Bernardo Fraddosio, architetto, scultore, pittore e anche scenografo, in quale “corrente” o stile ti riconosci?
Io sono inserito nel filone dell’arte contemporanea informale italiana (vedi ad esempio il Fontana o il Burri, con il quale ultimo alcuni mi ritengono in antitesi). Tengo a sottolineare che questo genere di opere possono essere realizzate soltanto da un artista italiano, perché è presente molto classicismo e una cura nella rappresentazione della materia che è tipica dell’arte rinascimentale classica.

Alcune opere sono davvero imponenti, oltre che per l’emozione che trasmettono anche per le dimensioni, come ad esempio questa “Sconnessione” o la recentissima “La materia del tempo”, che dà il titolo alla mostra (e che chiuderà questa intervista), richiedono riflessione, osservazione. Bisogno di spazio e di tempo, quindi
Difficilmente riesco a lavorare su piccole dimensioni anche perché il materiale che uso ha bisogno di spazio per potersi piegare. Alcune opere possono essere definite – come qualcuno ha fatto – dei “racconti”, proprio per le varie sensazioni che rappresentano e suggeriscono. E quindi vanno osservate attentamente, da varie prospettive, da lontano, a volte intorno, ma sempre anche da molto vicino. Sono felice quando l’osservatore si accosta all’opera e la scruta, la analizza, cercando quasi di entrarvi fisicamente. Come faccio io, quando creo.

Avrei ancora molto da chiedere e soprattutto ancora tanto resterei ad ascoltare. Ma chiuderò con un’ultima domanda sulle scelte di vita. Quanto costa dedicarsi all’arte, in qualunque forma essa possa esprimersi?
Può costare tanto, certo. Ho coltivato per anni questa mia ricerca, continuando a lavorare. Ma a un certo punto della mia vita ho fatto una scelta e ho cercato di far coincidere il mio lavoro con la mia passione, perché altrimenti che cosa resta?
Ora vivo in provincia, tranquillo. Torno sempre a Roma, che amo e che sa darmi forti stimoli, che però riesco a mettere in ordine e rielaborare soltanto nella quiete della mia casa.
Ovviamente questo è molto difficile e implica una serie di rinunce, ma se c’è una motivazione forte le scelte si fanno. E le rinunce costano meno.

“La materia del tempo”.
Esco da questa esposizione un po’ malinconica, infinitamente più ricca.

 

Antonio Bernardo Fraddosio nasce a Barletta nel 1951. Trasferitosi a Roma sceglie la facoltà di architettura dopo aver frequentato studi artistici. Si laurea giovanissimo e intraprende un’intensa attività di progettazione nei diversi settori dell’architettura, dell’urbanistica e del design.
Svolge attività didattica presso la Facoltà di Architettura dell’Università di Roma “La Sapienza” e insegna “arredo architettonico” presso l’Istituto Europeo di design. Il suo interesse per la storia dell’architettura e la storia dell’arte lo inducono ad intraprendere iniziative per il recupero e la protezione del patrimonio storico-artistico. Nel 1998 espone alcune opere nell’ambito della rassegna europea “Artisti per il 2000”, promossa dalla New European Art Research, nella Galleria Navona 42 a Roma; nel 2000 partecipa alla manifestazione “12 artisti per il Giubileo”; nel 2004 presenta dodici grandi opere nella mostra “Tensioni e Torsioni” curata da Gabriele Simongini nel Teatro Valle, infine nel 2007 è invitato a partecipare alla mostra “Baltico – Mediterraneo, Italia e Finlandia a confronto” curata da Sergio Rosi. Si misura, di recente, anche con il teatro, attraverso la realizzazione di scene che, nella volontà di interpretare il testo, assumono forma di sculture “abitabili”. Tra le scenografie più significative: “L’odore” di Rocco Familiari, regia di Augusto Zucchi, Festival dei Due Mondi, Spoleto 2003; Pavllosky, regia di Emanuela Giordano, Teatro Spazio Uno, Roma 2004; “Amleto in prova” di Rocco Familiari, regia di Mario Missiroli, Festival dei Due Mondi, Spoleto 2004; “Agata” di Rocco Familiari, regia di Walter Manfré, Teatro di Messina, 2005. Vive e lavora a Tuscania.

 

Intervista originale su Omero.it