Author: Maddalena Vestrella

Salvarsi dal naufragio

All’orizzonte, finalmente, un’isola. Appare nera nel mare scuro, sul finire di una notte cupa e fredda, fra onde inquiete e implacabili. Gli occhi dei migranti sopravvissuti ad un viaggio infernale si accendono di qualche incerta speranza. Forse è Lampedusa, forse è Lesbo, Italia o Grecia, insomma è Europa. O meglio, quel che resta di un’Unione Europea in piena fase di disintegrazione (lo spiega bene Jan Zielonka in “Disintegrazione. Come salvare l’Europa dall’Unione Europea”), spaccata da un terremoto non naturale ma morale e storico oltre che preda di miopi calcoli politici nazionali. Un’Europa che non sa più che cos’è né dove va, prigioniera anche dell’angoscia che fra i migranti si nascondano i terroristi dell’Isis e quindi sempre più restia all’accoglienza e all’umana pietà. E allora, pur fatte le debite proporzioni, a doversi salvare dal naufragio non sono solo i poveri migranti che in più rischiano la vita ma anche noi europei colpiti da una profonda crisi morale, arroccati nel cieco egoismo dei singoli nazionalismi e ormai indifferenti perfino a quel rispetto e a quella tutela dei minimi diritti umani che ci hanno finora definiti e uniti proprio come europei. “Un uomo che è un uomo – dice il dottor Pietro Bartolo in “Fuocoammare” di Gianfranco Rosi – deve aiutare queste persone”. In una frase così semplice e vera c’è tutto il senso di un dramma che va affrontato recuperando il senso profondo del nostro stare nel mondo da esseri umani solidali con altri meno fortunati di noi. “Terrorismo, guerre, paure, insicurezze – ha scritto Tullio Gregory – hanno messo in moto quello che forse è il più grande esodo della storia moderna, con centinaia di migliaia di profughi che dai Paesi dell’Africa e del Vicino Oriente si dirigono verso l’Europa – attonita e incapace – lasciando sulle vie della speranza migliaia di morti”. Del resto, solo a gennaio i morti nel Mediterraneo sono stati 368, fra cui almeno sessanta bambini: vera e propria tragedia nella tragedia, orrore nell’orrore, è la mattanza di minorenni nei viaggi della disperazione che si moltiplica diventando violenta strage degli innocenti in un paese martoriato come la Siria, in cui finora sono oltre diecimila i bambini deceduti sui trecentomila morti complessivi. Ed è stato calcolato da vari organismi delle Nazioni Unite che nel solo 2014 i migranti inter-nazionali, ossia trasmigrati da una nazione all’altra, sono stati circa 700 milioni. Questi numeri impressionanti ci dovrebbero far rendere conto una volta per tutte dell’inarrestabilità del fenomeno, che trova i suoi fondamenti nella legge della sopravvivenza. Ed è lecito interrogarsi sulla vera natura del recente accordo tra Unione Europea e Turchia che, nelle parole quanto mai condivisibili dello scrittore turco Hakan Gunday, porta alla constatazione “che ancora una volta una tragedia è diventata un affare, un mercanteggiamento. Su esseri umani. Ed entrambe le parti, Ue e la Turchia, lo giocano in modo matematico. Il fattore umano non sembra più contare”.

 

MediterraNero (Nero Mediterraneo)

Sulla spinta emozionale delle tristi verità messe a nudo dagli incessanti movimenti di migranti, dalla crisi d’identità europea, dalla minaccia terroristica e dall’inquinamento ambientale, due artisti come Antonio Fraddosio e Claudio Marini hanno iniziato, senza conoscersi, a dare forma a quell’inquietudine quasi apocalittica che agita il mondo col suo vento di follia. E allo scrivente è bastato solo cogliere la sintonia sorprendente fra le loro visioni pur così individualmente personali e metterle in dialogo al Museo Bilotti, con una sinergia densa anche di sviluppi futuri vista l’immediata collaborazione instauratasi fra i due artisti. Eppure, in questa mostra, al centro e prima di tutto c’è sempre la forma, in cui racchiudere dicibile ed indicibile senza farla precedere o dominare da connotazioni teoriche, antropologiche o sociologiche che oggi portano sempre più a sostituire la vita autonoma delle opere con la tirannia della parola. Su tale via non si può far altro che condividere questa riflessione di Nietzsche: “Il vero artista non dà valore a nessuna cosa che non sappia diventare forma”.

Le opere di Marini e Fraddosio, fra pittura e scultura, riflettono, con una sorta di sensibilissimo sismografo interiore, l’evoluzione apocalittica ed emergenziale di eventi e fenomeni inizialmente sottovalutati da tutti, soprattutto dai cosiddetti poteri forti, proprio quelli che hanno dato una spinta determinante a scatenarli. Ecco allora l’inquinamento ambientale planetario, il terrorismo più spietato, gli scontri etnici sempre più violenti e sanguinosi, e soprattutto l’immane afflusso di migranti che non conosce limiti, trasformando il Mediterraneo, come è stato detto, da “mare nostrum” in “mare monstrum” e svelando la colpevole indifferenza di tanti (di tutti?). In queste opere c’è scritta in controluce la trascinante ed invincibile forza della vita che spinge i migranti ad attraversare mari su imbarcazioni di fortuna, a scalare muri, a nascondersi nel cofano di una macchina, a percorrere centinaia di chilometri a piedi col timore fondato di essere respinti. E viene da chiedersi, così come fanno i due artisti con le proprie opere: è possibile fermare il desiderio inarrestabile di sopravvivenza? E’ possibile fermare chi osa attraversare mari e tempeste, scavalcare muri con recinzioni elettrificate, viaggiare in condizioni disumane e quanto mai rischiose, marciare a piedi per centinaia di chilometri, pur senza alcuna minima certezza di arrivare a destinazione? E come non trarre una profonda lezione dal fatto che l’accoglienza e la solidarietà più vera e disinteressata ai migranti vengono da gente semplice e non benestante che si trova alla vera frontiera dell’Europa di oggi, il cui simbolo migliore sono le isole, peraltro povere, di Lampedusa e di Lesbo? Così, oltre all’Italia, proprio quella Grecia massacrata dall’Europa burocratica e a trazione tedesca dà prova esemplare di quel che potremmo essere tutti nel ridare pieno senso alla parola “uomo”. Lampedusa e Lesbo (candidata al Nobel per la pace) sono l’emblema di un’Europa accogliente che purtroppo in termini generali e politici di fatto non esiste. E in tal modo siamo ormai agli antipodi dall’epoca in cui proprio un tedesco, Hegel, diceva: “Al nome Grecia l’uomo colto europeo subito si sente in patria”. L’Europa dei potentati finanziari ed economici, diventati i padroni dei nuovi “valori”, ha surclassato e quasi annientato l’Europa della cultura e del logos. Forse è finita una civiltà. E dopo tanto tempo sembra vanificata quella conquista così efficacemente e sinteticamente descritta da Edgar Morin nel suo “Pensare l’Europa” (1988): “La riattivazione dell’eredità greca, merito originale del Rinascimento, diventa permanente. Da questo momento il pensiero, la poesia e l’arte europea rimangono ancorati a questa fonte”. Ora, purtroppo, la riflessione di Morin va declinata al passato. Annichilita la “Venere di Milo”, il simbolo della bellezza violentata e mutilata di oggi, con un senso d’orrore quasi grottesco, può identificarsi con la “Venere di Palestina” di Fraddosio, relitto e carcassa raggrinzita che nonostante tutto ostenta un residuo di carnalità fattasi pietra. E allora ci chiediamo con preoccupazione, e con noi anche i due artisti, se ha ragione il narratore del film “Francofonia – Il Louvre sotto occupazione” di Aleksandr Sokurov nel dire che le forze del mare e della storia sono “senza ragione e senza pietà”.

 

Vessilli dell’apocalisse?

In mostra simboli concreti dell’inquietudine odierna diventano le bandiere, chiuse in gabbia, sgualcite, strappate, usurate, inquiete, liquefatte, vessilli in crisi e spogliati di qualsiasi retorica celebrativa, schegge impazzite che testimoniano l’effetto dilaniante di quella sorta di terza guerra mondiale “a pezzetti, a capitoli” di cui ha parlato Papa Francesco. Lo si vede bene nella “Bandiera nera nella gabbia sospesa” di Fraddosio, che reclama di essere agitata, cullata e ruotata, quasi divelta per liberare quel vessillo prigioniero che è un po’ l’anima di ognuno di noi. Con un amaro paradosso, l’unica che può sventolare muovendosi nello spazio è quindi la gabbia mentre la bandiera è condannata a vivere del riflesso di quel movimento e giace immota come un animale costretto tra le sbarre. Così il minimalismo assertivo della gabbia esalta per contrasto quel vessillo combusto e annichilito, emblema inquietante di resa ed impotenza collegabile alle molteplici crisi del nostro tempo. E senza dubbio la presenza profetica della gabbia e della bandiera nera ci fa pensare alle immagini minacciose del terrorismo, oggi onnipresenti sui massmedia, anche se l’opera di Fraddosio risale al 2011. Nella contrapposizione fra costrizione ed aspirazione alla libertà presenti in quest’opera tornano alla mente le riflessioni di Paul Klee: “L’uomo è per metà prigioniero e per metà alato. Ognuna delle due parti in cui è lacerato il suo essere, accorgendosi dell’altra, prende coscienza della propria tragica incompiutezza”.

Su un altro versante, è da alcuni anni, con i vari cicli delle bandiere, che Claudio Marini ha chiamato a raccolta tutto il mondo non più tramite i vessilli ufficiali e da bella parata ma con i suoi stendardi inquieti e liquidi, in continuo mutamento, capaci di rispecchiare sia gli impressionanti flussi migratori da un continente all’altro di esseri umani poveri, disperati, alla ricerca di un’altra vita, che la stessa metamorfosi dell’idea e dell’identità di nazione. Anzi, potremmo immaginare che quasi tutte le opere di Marini esposte al Museo Bilotti diamo immagine per frammenti ad uno sterminato mare nero su cui galleggiano ed affiorano stendardi abbandonati, relitti, vestiti lacerati, avvisi d’allarme o di pericolo giunti da chissà dove, in un solo immenso naufragio che moralmente ci accomuna tutti. Così sta a noi europei ridare i colori dell’umanità e della dignità umana al Mediterraneo perché il mare, come ha mirabilmente scritto Paul Valéry, contiene tutte le possibilità: “usa la trasparenza e i riflessi, il riposo e il movimento, la pace e la tormenta; dispone e sviluppa di fronte all’uomo, in figure fluide, la legge e il caso, il disordine e la periodicità; indica la via o sbarra il cammino”. E’ una riflessione rispecchiata con forza proprio nelle opere di Marini, in particolare nel dittico “Salvarsi dal naufragio” e nel ciclo “Mediterraneo”.

Il nostro sguardo penetra in profondità, nelle viscere di queste bandiere sconvolte, senza restare sulla superficie dell’immagine e in ciascuna opera pare quasi di vedere riflessi i sogni, le tragedie e le sofferenze di un’umanità lacerata, diversa in ogni paese ma in fondo uguale nel suo aspetto universale. Le bandiere di Marini, dall’Italia agli U.S.A, dalla Siria all’Iraq, fremono di convulsioni irrefrenabili, la loro pelle si raggrinzisce e si contorce per il dolore, smascherando ogni retorica ipocrisia e violenta sopraffazione travestite da orgoglio nazionalistico. In questa liquefazione della forma nel caos magmatico del disordine e della sopraffazione, si può anche vedere, per parafrasare Massimo Cacciari, “l’assenza di forma derivante dall’equivalenza universale di ogni ente in quanto merce, con la sottomissione alle “leggi” del mercato e dello scambio, coronate in leggi di natura”. Nell’impressionante sfilata di questi vessilli tormentati, tutto il mondo appare agitato da un vento d’apocalisse che sembra possedere anche la forza di un giudizio universale laico. Del resto, intuendo la crisi morale di un’Europa profondamente fragile, già nel 2005, con una visione lungimirante, Claudio Marini aveva dato immagine ad una Unione Europea quanto mai debole, disunita, con quelle stelline tremolanti dei paesi fondatori che non davano alcuna sicurezza né valore stabile, quasi sul punto di affogare nel mare-cielo azzurro e blu. Le bandiere nere, il dittico “Salvarsi dal naufragio” realizzato per la mostra e il ciclo “Mediterraneo” dedicato ai migranti con il recupero di oggetti trovati sulla battigia e “sporco” di notte dolorosa, di sangue, di tensioni laceranti e di incubi, hanno già una propria forza storica e morale che va al di là della pura e semplice attualità per l’osmosi strettissima e profonda fra formalizzazione materica e sostanza d’impegno etico, nella perfetta identificazione di tecnica e “contenuto”, senza alcuno scollamento sociologico o illustrativo. Il visibile dell’opera è innervato dall’indicibile che ne è parte integrante e che lo rende sempre diverso. Come lo scrivente ha notato in un’altra occasione, in ognuno di questi lavori sono prima di tutto i sommovimenti ansiosi della materia e la potenza ineffabile della pittura a metterci in contatto con drammi e tragedie, ingiustizie e violenze in modi che non hanno alcuna relazione con la comunicazione verbale o mediatica. E così Claudio Marini non illustra alcunché né la sua pittura ha bisogno di quegli apparati esplicativi e teorici che ormai sono indispensabili per far esistere tante, troppe pseudo-opere contemporanee legate indissolubilmente ad una costruzione narrativa che le preceda e le giustifichi. La sua ricerca, in piena autonomia linguistica, fa da soglia e da ponte fra il ricordo delle vittime dimenticate e la nostra esperienza visiva ed emotiva. Ecco, Claudio Marini agisce su quel condensato della storia e delle radici di ogni nazione che è la bandiera depositandola in una sorta di frullatore che la sgualcisce, la macchia, la strappa, la scioglie, la usura, per poi farne venire fuori il suo ritratto attuale, veritiero, sconvolgente, in cui domina la sinfonia del “profondo nero”, di volta in volta, magnificamente, lucido oppure opaco, pulito o sporco, elegante o trasandato. Mentre le bandiere ufficiali che sventolano sui pennoni internazionali sono immacolate e perfette come il Dorian Gray perennemente giovane di Oscar Wilde, Claudio Marini ha il coraggio di guardare l’effigie nascosta e non di rado sofferente di queste nazioni e di darcene conto. Diventa un cronista obiettivo ma non indifferente. In piena sintonia con le opere di Marini, ne “L’isola nera” di Fraddosio dodici quadri delle stesse misure sono simili a tessere di un mosaico che rappresenta i dodici mesi del 2013, l’annus horribilis (pensiamo, ad esempio, al naufragio del 3 ottobre in cui 366 migranti annegarono vicino alla costa di Lampedusa) in cui è iniziato e cresciuto drammaticamente quello che oggi dobbiamo considerare un inevitabile esodo. E’ una sorta di tragico fregio fatto di tanti fotogrammi materici, magmaticamente “corrucciati”, che richiedono una contemplazione prolungata per cercare una luce residuale nell’oscurità incombente E “L’isola nera” è vista con gli occhi stessi dei migranti stremati che vi si avvicinano col loro carico di dolore e di fragile speranza.

A proposito di mare ecco poi “Le onde nere” di Fraddosio, realizzate in fibro-legno modellato, cemento, catrame ed asfalto liquido. In questo caso l’artista crea un organismo plastico colmo di forza archetipa e di vitalità pulsante, destinata nella sua inquietante fluidità ad avvolgere e quasi a travolgere lo spettatore. Come presenze metamorfiche richiamano sia delle onde che delle bandiere senza patria e drammaticamente notturne. Escludendo anche in questo caso qualsiasi volontà didascalica ed illustrativa dell’artista, non si può fare a meno di avvertire una temperie apocalittica che in qualche modo riporta alla mente una polifonia di motivi tragici, dai marosi che spingono e spesso travolgono i migranti ai terrificanti fenomeni dello tsunami e delle onde anomale, qui depurati da ogni valenza naturalistica, senza trascurare la cieca violenza dell’uomo sulla natura e l’inquinamento ambientale ormai forse inarrestabile. Così, nelle sculture e nelle carte materiche di Fraddosio, la costruzione è anche distruzione, la struttura è destrutturata, la nascita del nuovo implica la fine esplosiva del vecchio, lo spazio è concavo e convesso, la vitalità convive con un profondo senso di disfacimento, la speranza con la disperazione, l’aspirazione ad un volo liberatorio porta con sé la paura della caduta. Egli dà corpo più che immagine, vista la fisicità dei suoi lavori, ad un’idea profonda di crisi relativa alla nostra epoca, alla necessità di una scelta fra ciò che sta crollando e quello che sta faticosamente emergendo in modi ancora indistinti e faticosi. “Crisi delle utopie, crisi dei progetti, crisi dei modelli – ha scritto Yves Michaud con parole che Fraddosio potrebbe ben condividere- perfino crisi della storia divenuta finzione. Dal punto di vista collettivo, il capitalismo e la globalizzazione sono ormai l’ambiente, senza esterno, in cui ci tocca vivere.[…] Il tempo si è per così dire appiattito: non comporta più la dimensione di un fine ultimo che faceva luccicare il futuro”. Le antiarchitetture destabilizzanti di Fraddosio, immagini del cantiere della crisi in atto, costruite anche con umili materiali di recupero e prive di qualsiasi levigata compiutezza, fanno emergere il ritratto di un mondo che deve ormai fare i conti col proprio malessere più nero e profondo. Le fratture che percorrono come terremoti la superficie delle sue opere mettono a nudo le crepe nascoste di un modo di vivere asettico, indifferente, anestetizzato. Ne offrono un esempio di rara potenza tre lavori in legno e cemento, intitolati “Tutte le lesioni” e fondati su una discontinuità lacerata che li porta a dialogare reciprocamente tanto da potersi comporre anche in un trittico quanto mai efficace e polifonico, sospeso fra sisma e naufragio. In un’opera come “Numero quattro”, graffi, incisioni, concrezioni, combustioni, dilavamenti, abissi vertiginosi, riflessi d’oro e d’alabastro, barlumi di trasparenze impreviste creano una pelle materica che ha una sua “elegante terribilità”, in sé spiazzante, fra abissi minacciosi d’ombre impreviste e squarci di catartiche luci dorate, fra speranza e disperazione. In una carta come “Linea d’ombra” (il cui titolo è ispirato al romanzo “The Shadow Line” di Joseph Conrad, che ha come protagonista il viaggio nel mare della vita), il rapporto dialettico fra drammatica deflagrazione materica ed estremi residui di una struttura originariamente geometrica (i relitti delle certezze razionali?) sembra far emergere in controluce la necessità di una scelta di responsabilità in un momento decisivo della nostra storia di europei.

 

La forma della responsabilità

Quel che unisce, nell’inquieto sommovimento materico che si fa visione turbata, le opere di Marini ai lavori di Fraddosio è anche la capacità dei due artisti di far penetrare in profondità il nostro sguardo, nelle viscere di questi lavori “sconvolti”, senza farlo restare sulla superficie dell’immagine: così in ciascuna opera pare quasi di vedere rispecchiati i sogni, le tragedie e le sofferenze di un’umanità lacerata, diversa in ogni paese ma in fondo uguale nel suo aspetto universale. Ecco la “natura” e il “potere” della vera opera d’arte, come ha scritto Jerry Saltz, quella che “non ci limitiamo a guardare in superficie. Guardiamo anche dentro e attraverso di lei, dentro e attraverso la pittura, il pigmento, la tela eccetera fino ad arrivare a qualcos’altro. Non vediamo solo noi stessi e la mente del suo creatore. In qualche maniera metafisica, ma al tempo stesso organica, vediamo una mente e una memoria collettiva. Vediamo un oggetto statico imbastito di pensieri e ricordi, un oggetto immutato che cambia nel tempo”. Fraddosio e Marini ci offrono il loro intervento, la propria testimonianza incandescente e palpitante di quel che vedono, di quel che sentono, da esseri umani che si rivolgono prima di tutto ai propri simili. Proprio per questo le loro opere più che guardate vanno sentite come un’esperienza in fieri sul mondo di oggi. Come ha detto il regista Peter Stein, “la storia non ha senso, ma dobbiamo ugualmente continuare a cercarlo. Io parlerei di responsabilità. In una duplice accezione: verso se stessi e verso gli altri”. Ecco, per Fraddosio e Marini l’arte stessa è vessillo di responsabilità che cerca forma.

 

Gabriele Simongini

 

L’accostamento di due artisti dalla diversa formazione e che si esprimono in modo diverso è spesso rischioso, perché non sempre il visitatore della mostra riesce a cogliere i nessi, le trame di dialoghi che si intessono, le corrispondenze più o meno esplicite. Nel caso di Antonio Fraddosio e Claudio Marini si ha a prima vista l’impressione di un diverso percorso, basato su scelte stilistiche non omogenee, sebbene entrambi abbiano un elemento comune nella bandiera.
Quelle “interpretate” da Claudio Marini, recentemente nere ma prima anche con colori sgargianti e accostamenti arditi, come sono in realtà, si confrontano con le opere di Fraddosio dove dominano i neri e i colori neutri quali il sabbia ed il bianco sporco, e si rilanciano l’un l’altra un medesimo tragico messaggio. Le bandiere di Marini sembrano a prima vista “realistiche”, seppur interpretate “artisticamente”, ma a ben guardare ci si rende conto che l’autore non ha solo manipolato la tela con l’uso materico di smalti o con lo stropicciamento della tela stessa, ma ad ognuna di esse ha aggiunto qualche elemento che ci connette direttamente con il popolo che la bandiera rappresenta, con i drammi che quel popolo sta vivendo o ha vissuto, dalla dolorosa e ingiusta crisi della Grecia alle fragili e spesso sanguinose primavere arabe fino alla tragedia del Giappone con l’esplosione della centrale nucleare di Fukushima. Per apprezzare il messaggio di Marini è necessario che lo spettatore sia in grado di giungere all’emozione attraverso quella che potremmo chiamare una sorta di “cognizione del dolore”, un dolore che attraversa il nostro mondo in modo davvero globalizzante.
Il messaggio di Fraddosio è più diretto e l’impatto con la grande bandiera nera chiusa in gabbia, con il movimento della “tela” rattrappito e congelato tra le sbarre, trasmette immediatamente un messaggio drammatico. La gabbia, simbolo di per sé di costrizione, incombe sulle nostre teste, con all’interno qualcosa che, come corpo vivo, cerca contorcendosi lo spazio nel quale collocarsi. Una bandiera ben lontana da quelle che vediamo nelle rassicuranti cerimonie ufficiali, con i colori nazionali che si dispiegano nell’aria e, per dirla retoricamente, “garriscono al vento” mentre il popolo raccolto si emoziona in un ritrovato senso di appartenenza. Non meno forti nel loro impatto sono le altre opere scultoree, assemblaggi di legni, cemento, ferri, trattati con grumi di catrame e colori terrosi, che con margini seghettati, punte, tessiture materiche e sfaldamenti, inducono subito sentimenti di inquietudine. Non sono certo rassicuranti i titoli che Fraddosio ha dato alle sue opere, che contengono termini come “lesioni”, “scissure”, “distorsioni”, “ruderi”, come non rassicuranti sono i colori che usa, che negano ogni ottimismo: emblematico è il titolo di un’opera e della bella mostra che si è tenuta a Lucca nel 2012, “Luce nera”.

È quindi una mostra di grande e tragica attualità, che ci obbliga a confrontarci con il dramma di un mondo nel quale, ormai, la guerra e la violenza sono ovunque e si manifestano in mille imprevedibili forme. Ci insegna a vedere la pittura e la scultura in continuità con la realtà, come parte di essa. Per noi italiani il titolo della mostra è di immediata comprensione: mai nella nostra storia la parola naufragio ha assunto tale portata, ogni giorno ci viene gettata addosso in tutti i notiziari, fa parte ormai del nostro quotidiano. E abbiamo tutti capito che non c’è salvezza individuale, che il nostro mondo deve ritessere una rete di solidarietà, che tutti dobbiamo essere protagonisti di un ritrovato sentire come cittadini del mondo. Può l’arte contribuire a questo? Noi crediamo di sì e le belle parole del messaggio ad artisti ed intellettuali, rivolto dal Ministro della Cultura greco, che Gabriele Simongini cita a conclusione del suo emozionante saggio, sono illuminanti.
Come è stato detto, non è la cultura che fa le rivoluzioni, ma senza cultura non ci sono rivoluzioni, e compito dell’arte, oggi, è aiutarci a percepire, attraverso le opere, il mondo intorno a noi in tutta la sua complessità.
A conclusione vorrei raccontare il mio legame personale con Antonio Fraddosio, risalente alla fine degli anni Novanta del secolo scorso e in un contesto totalmente diverso. Antonio lavorava presso il Provveditorato dello Stato e io ero impegnata nel recupero degli edifici e del parco di Villa Torlonia. Lui mi contattò perché, grazie ad alcune vecchie foto conservate nell’archivio del quotidiano “Il Tempo”, aveva individuato in alcuni mobili giacenti in un magazzino, quelli che arredavano la camera da letto del principe Giovanni Torlonia e che, nel 1925, era divenuta di Benito Mussolini. Il duce, infatti, aveva avuto dal principe in affitto, ad un canone simbolico, tutta la villa di via Nomentana e vi risiedette con la famiglia fino all’arresto avvenuto nel luglio 1943. Con Antonio Fraddosio e con l’allora sindaco Francesco Rutelli, si decise di restaurare i mobili e di ricollocarli nella sede di provenienza, contribuendo con un tassello ulteriore al recupero del complesso e della sua memoria storica. Così i mobili sono stati ricollocati e fanno bella mostra nel Casino nobile della Villa, in un percorso tra arte e storia che, senza alcun intento nostalgico, ha voluto ricostruire tutte le fasi di un importante periodo della nostra storia. Questo episodio, certamente minore rispetto ai tanti ed impegnativi lavori condotti nella Villa, è a mio parere importante come dimostrazione di una corretta collaborazione tra istituzioni, di un metodo di lavoro che, nel rispetto delle competenze, mira al bene del nostro patrimonio culturale. Da quella collaborazione è nata l’amicizia e la “scoperta” di un Antonio Fraddosio artista e mi piace ricordare che questa è una delle ultime mostre da me organizzate come direttore del Museo Carlo Bilotti, quasi un suggello alla mia quarantennale presenza al Comune di Roma, tra conservazione e ricerca.

 

Alberta Campitelli

Foyer Teatro Valle, Roma

dal 26/5/2004 al 6/6/2004

La mostra è strutturata secondo due percorsi distinti, ma fra loro correlati. Il primo è rappresentato, infatti, da una selezione delle opere più significative dell’artista (tutte provenienti da collezioni private), dal 1998 al 2003. Il secondo è la ricostruzione (attraverso, soprattutto, l’ampia scelta di disegni preparatori) del processo creativo della scenografia realizzata per il testo “L’odore”, di Rocco Familiari, presentato (con la regia di Augusto Zucchi), negli stessi giorni, al Teatro Valle.

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Le opere esposte in questa mostra appartengono al primo ciclo

Commenti critici e interviste relativi alla mostra

La parete vivente

La presentazione al catalogo di una mostra d’arte figurativa, scritta non da un critico d’arte ma da un drammaturgo, introduce sicuramente un punto di vista non usuale nel processo di analisi estetica. Ma in questo caso consente di riassumere più compiutamente l’itinerario artistico di Antonio Bernardo Fraddosio.

Ho conosciuto Fraddosio in una maniera abbastanza singolare. Anni fa avevo fondato con alcuni amici un’associazione culturale, che, come prima, ambiziosa iniziativa, organizzò una mostra di pittori siciliani[1] a Roma, Messina e Palermo, per poi trasferirsi a New York, nella sede della Columbus Citizens Foundation. L’architetto Fraddosio era stato incaricato dalla ditta che curava l’allestimento a Roma di rendere funzionale alle esigenze espositive l’Acquario Romano. Era una sfida quasi impossibile (sempre persa, prima di allora, da chiunque aveva tentato di piegare la singolare struttura a finalità diverse da quelle per le quali era stata ideata, peraltro mai soddisfatte), per la “prepotenza” del manufatto, a causa soprattutto dei materiali utilizzati (la ghisa, tanto cara all’architettura degli inizi del Novecento), e della particolare disposizione dei locali. Ho memoria ancora viva di infausti spettacoli di prosa, con gli attori smarriti in uno spazio scenico improbabile, di concerti inascoltabili per la pessima acustica (la ghisa delle colonne e il vetro della copertura non sono ideali, com’è noto, per la risonanza degli armonici…), di mostre, infine, anche di opere eccelse, che, in quel contesto, naturalmente ostile, si trasformavano in esauste imitazioni di se stesse.

Ebbene, Fraddosio superò la temibile prova con una felice intuizione creativa, rendendo quella mostra non solo godibilissima in sé, con i quadri collocati e illuminati in modo tale da consentirne un’agevole visione, ma anche uno degli eventi più interessanti nella storia espositiva della città.

La felice intuizione creativa fu un… tubo! Sì, un lunghissimo, luccicante tubo di alluminio snodato che, partendo da un gigantesco parallelepipedo piantato nel giardino di fronte all’ingresso, come fosse il ramo di un fantastico rampicante, entrava nella hall, si inerpicava lungo la scala, attorcigliandosi su se stesso a delimitare gli spazi destinati ai singoli artisti, per poi ridiscendere e tornare al punto di partenza. Lo spettatore non doveva fare altro che lasciarsi guidare dall’… invadente tubo.

Ho voluto ricordare l’episodio anche per introdurre un elemento di valutazione dal quale non si può prescindere nell’esaminare la produzione più strettamente artistica di Fraddosio, e cioè la sua capacità, in parte innata, in parte coltivata grazie agli studi di architettura, di “organizzare” lo spazio. Le sue opere, sia le monumentali sculture sia le “carte” in mostra a Lucca, hanno questa caratteristica, di inglobare, nei materiali o nei segni, lo “spazio”, ciò che comporta, per la nota equazione einsteiniana (che si vorrebbe messa in discussione dal recente esperimento con i neutrini, più veloci della luce), anche un rapporto organico con il “tempo”.

In una precedente occasione, avevo scritto un pezzo, a proposito di una importante opera (Tensioni), che ripropongo, in quanto significativo di quelle che subito mi apparvero le connotazioni essenziali del suo modo di fare arte:

«La parete è qualcosa che divide o, al contrario, racchiude, che disgiunge o, invece, riunisce.
Taglia lo spazio e lo raccoglie. Sembra poter conciliare gli opposti.
Ha una parte frontale, che va decorata, ricoperta, con quadri, rilievi, o stoffe preziose, e una nascosta, misteriosa, angosciante, come l’altra faccia della luna. Può essere sottile quanto un foglio di pergamena, come nelle case giapponesi, o un muro possente, come nelle costruzioni medievali. Piegarsi ad arco, dispiegarsi come una vela, e sostenere le svettanti cupole delle cattedrali.
Estendersi per chilometri, e smembrare popoli, territori, dando agli uni, quelli che la muraglia imprigiona al proprio interno, l’illusione di una difesa insormontabile, e suscitando negli altri, quelli lasciati fuori, l’irresistibile impulso a superarla, aggirarla, abbatterla.

Quello che non può fare, non ha mai fatto, è esistere per sé. Inimmaginabile una parete senza una struttura da sostenere, uno spazio da dilatare o rinserrare, uomini da escludere o da proteggere.
Questa che Fraddosio ha voluto intitolare Tensioni lo è. Una parete che racchiude in se stessa lo spazio, che resiste, si contrae, si addensa, si raggruma, si espande, per esplodere infine, in alcuni punti della superficie, là dove trova un’incrinatura e può aprirsi un varco “dall’altra parte”. Una parete-totem, di fronte alla quale diventa inutile porsi la domanda di cosa nasconda, da chi ci allontani, una parete-specchio, che riflette le nostre inquietudini e ci restituisce l’immagine delle nostre deformità, quelle che tentiamo di celare agli altri, diventando noi stessi una invalicabile parete».

 

Le scenografie

Le prime uscite “pubbliche” di Fraddosio sono le scenografie da lui realizzate per alcuni spettacoli teatrali. Nel 2003, per il mio testo L’odore, diretto da Augusto Zucchi, ideò per la cella[2] una piramide di letti a castello che formavano una gabbia nella gabbia, e svettavano verso una finestrella posta in alto, quasi anelassero anch’essi alla libertà, e sulla quale si arrampicava, con agilità felina, il protagonista più giovane. Costruì poi una sorta di monumento, un lavello-bugliolo che ho descritto in seguito nel romanzo tratto dal dramma, felice esempio di feed back reciproco: «Un piccolo monumento – nel suo genere – partorito dalla perversa fantasia di qualche architetto carcerario, una sorta di cubo compatto che, con un gioco di incastri, diventava lavabo-lavello, tavolo da pranzo e bugliolo.
Sì, facendolo scorrere o girare in un modo piuttosto che in un altro, poteva essere usato, di volta in volta, per le necessità fondamentali dell’esistenza.
Rispettava anche la gerarchia delle funzioni. La parte superiore era destinata alla bocca, alla testa, al busto, e quella inferiore alle “vergogne”, anche se in un contesto come quello, in cui era bandito ogni diritto a un minimo di intimità, il termine perdeva ogni significato. Era una potente raffigurazione – una sintesi feroce quanto efficace – dell’essere umano ridotto alle sue attività elementari: un tubo, da un’estremità del quale entra il cibo, che viene espulso dall’altra parte.

Quel luogo era stato pensato, in tutto il suo tetro squallore, non soltanto – e, comunque, non era questo lo scopo principale – per tenere sotto controllo persone pericolose, ma soprattutto per far capire loro che, oltrepassata una porta, che non era quella del carcere, ma era dentro, una soglia invisibile che stava dentro il cervello, si diventava delle nullità. Quello spazio, così concepito e arredato, aveva, infatti, la finalità di far sentire coloro che lo abitavano, non più uomini, con emozioni, idee, sogni, ma soltanto funzioni, quella del mangiare, del dormire e dell’evacuare»[3]. Nella camera da letto vi era infine una splendida invenzione, la spalliera, realizzata intrecciando insieme due antiche testiere in ferro, che formavano anch’esse una gabbia.

La scenografia contribuì decisamente al successo dello spettacolo, ma, all’interno di esso, lo scultore Fraddosio riuscì a esprimersi in totale autonomia, senza entrare in conflitto, come spesso accade quando gli artisti si prestano al teatro, con le esigenze sceniche. La mostra dei bozzetti e dei disegni preparatori testimoniava il lungo e approfondito lavoro di ricerca, ma anche la perfetta consonanza espressiva del suo mondo interiore con il testo.

Ripetemmo il felice esperimento in altre due occasioni e, in entrambi i casi, Fraddosio procedette in maniera analoga, assecondando sì le legittime richieste dei registi, ma contribuendo anche, con una sua precisa lettura, all’interpretazione dei drammi messi in scena. In Agata[4], il regista aveva voluto una scena “aperta”, che suggerisse semplicemente i vari ambienti, e che soprattutto desse piena libertà agli attori di muoversi nello spazio, reinventandolo a seconda delle esigenze interpretative. La struttura realizzata da Fraddosio, una semplice intelaiatura, consentiva tutto questo e, come per magia, diventava di volta in volta la camera da letto dei due innamorati, un obitorio, una discoteca, il bunker dove si consumava la vendetta finale della protagonista.

L’ultimo lavoro in cui abbiamo finora collaborato, forse il più impegnativo, è stato Amleto in prova, dato al Festival dei Due Mondi di Spoleto nel 2004[5]. Fraddosio aveva concepito una scena di grande suggestione, una sorta di spazio classico, al centro del quale troneggiava una gigantesca corona regale, da cui si sviluppava una scala che saliva, avvitandosi su se stessa come una spirale, verso l’infinito. Ma non fu possibile realizzare questa idea, dato che lo spettacolo era allestito all’interno della Rocca degli Albornoz, un contesto fortemente caratterizzato dal punto di vista architettonico, che perciò non tollerava una struttura così indiscreta. Fraddosio optò allora per una soluzione puramente funzionale, un’impalcatura che, da una parte, reggeva la video-wall su cui venivano proiettate le riprese delle prove dell’Amleto[6], e, dall’altra, sosteneva una grande e variopinta quantità di costumi, quelli che gli attori man mano indossavano.

Fraddosio ha poi proseguito la sua collaborazione con Zucchi in uno spettacolo da lui diretto e interpretato, costruito su due testi dello scrittore-psichiatra argentino Eduardo Pavlovsky. In questo caso, trattandosi di un monologo, la scena era una scultura diagonale, di forte impatto visivo, di fronte alla quale l’attore recitava, salvo poi, alla fine, strapparne una parte, dietro la quale apparivano i volti dei desaparecidos a cui si accennava nel dramma.

Mi sono dilungato su questo aspetto dell’attività creativa di Fraddosio perché in esso è evidente, in maniera spiccata, una delle caratteristiche delle sua arte: la capacità “rappresentativa”. Voglio precisare subito che non si tratta di un elemento esteriore, ma dell’essenza della sua modalità espressiva. Le sue opere, piccole o grandi, sculture o pitture, si dispongono nello spazio in maniera da “rappresentare” se stesse, in almeno tre accezioni evocate dal termine: evidenziare, simboleggiare, interpretare. Qualsiasi opera d’arte figurativa traduce in immagine, e perciò, in questo senso, rappresenta, la realtà, fisica o mentale, volti, paesaggi, Stilleben, o gli «stati di mente», che, come sostiene T. S. Eliot, «ci sono incomprensibili», ma, nel metterla in evidenza, la modifica, eliminandone la capacità distruttiva: «Human kind/cannot bear very much reality»[7]. Per poter fare ciò trasforma la realtà, quale che sia, ripeto, fisica o mentale, in un simbolo, in qualcosa che acquista, quindi, un significato ulteriore. Da ultimo, poiché l’arte, quella autentica, non può mai prescindere dalla realtà, anche quando sembra volerla eliminare alla radice, allora ecco che, per catturarla, è costretta a interpretarne i codici più segreti, a decifrarne la logica intima. Per non restare nel vago, tutto ciò è rintracciabile in qualsiasi grande opera. Basti pensare a una tela di Vermeer, la famosa Lattaia, o l’ancor più famosa (grazie anche al film che ha lanciato Scarlet Johansson) Ragazza con l’orecchino di perla, per ritrovarvi i tre elementi: vi è la realtà tout-court, la lattaia e la ragazza, trasfigurate, però, da qualcosa che rende “quella” lattaia o “quella” servetta personaggi paradigmatici, quasi mitologici, che si pongono di fronte allo spettatore anche come interpreti della scena che viene rappresentata. L’opera in cui questa polivalenza di atteggiamenti trova la sua massima esaltazione è il capolavoro di Velasquez Las Meninas, forse l’opera intellettualmente più complessa di tutta la storia della pittura, dove il pittore rappresenta se stesso mentre dipinge dei personaggi che si mettono in posa, guardandosi in uno specchio, dal quale l’artista coglie le immagini riflesse, quelle che lui ha disposto così come voleva “riprenderle”, e altre apparse casualmente (la coppia reale che si intravede in un altro specchio alle spalle del gruppo ritratto), per trasferirle sulla tela.[8]

Ciò avviene, lo ripeto, ogni qual volta un artista si pone di fronte alla realtà che vuol capire, al mistero che vuol “fronteggiare”[9], per organizzarlo in una forma leggibile (almeno in parte). Come nelle opere di grande dimensione, quasi delle costruzioni architettoniche, sulle quali mi soffermerò soltanto per gli aspetti che riguardano l’approccio ai materiali, da parte di Fraddosio, o meglio il modo con cui, da materiali informi object trouvés, o semplici scarti industriali o vegetali, come cortecce di alberi, legno corroso dal tempo, cartoni deformati dall’acqua, riesce, con un sapiente e paziente lavoro artigianale, a estrarre la forma che si portano dentro. Le due strutture orizzontali, soprattutto (già viste all’Archivio di Stato all’Eur, nel 2007 e ripresentate a… ), intitolate La materia del tempo e Sconnessione, sarebbero inconcepibili se dietro non ci fosse la capacità progettuale di Fraddosio, che utilizza il suo bagaglio professionale, mettendolo umilmente al servizio dell’urgenza espressiva. Le due sculture (degli “altorilievi”, in effetti) sono un magnifico esempio, trionfale direi, della perfetta fusione fra i momenti dell’ideazione dell’opera, della realizzazione del manufatto e della “trasfigurazione” di esso in materia simbolica. Sono forme strutturate e destrutturate allo stesso tempo. Come se l’artista distruggesse una forma per rintracciarne una più profonda, e riorganizzasse i materiali intorno a questo nucleo, prima celato e che ora si disvela pienamente. Scolpisce lo spazio, più che la materia, in qualche caso addirittura il silenzio, catturandolo e raggrumandolo sulle tormentate superfici delle sue carte o negli anfratti delle sue Lacerazioni (titolo ricorrente). Per dirla ancora con un verso di Eliot, riesce a creare: «a grace of sense, a white light still and moving»[10].

 

Le “carte nere” di Lucca

Devo dire subito che l’allestimento di questa mostra è quanto mai sapiente. Aver sistemato i disegni alla fine del percorso espositivo, mette in condizione lo spettatore di subire, prima, l’impatto visivo con questi “grumi di luce nera” rappresi sulla carta o sul legno, e poi, una volta elaborate dentro di sé le emozioni provate, di rintracciare la “scala” programmatica che porta a quei risultati (e che, una volta usata, secondo la vecchia, sempre utile metafora, deve essere fatta sparire), ma gli intima anche una rivisitazione della mostra, in modo da rintracciare, sotto la texture, in questa seconda più consapevole lettura, la struttura portante, concettuale dell’opera. Sbaglia, infatti, chi pensa che l’artista crei senza un progetto. Se tale momento prevale, però, il risultato è freddo, non emoziona; se, al contrario, sparisce del tutto, tanto da non poterne neppure presupporre l’esistenza, allora l’opera appare come frutto di puro istinto, quasi partorita direttamente, come in certe stampe fotografiche sperimentali, un tempo in auge, per “contatto” fra l’oggetto e la carta sensibile. In questo caso, fra le «undisciplinated squads of emotion»[11] e il supporto materiale, carta, tela, legno, pietra, acciaio, terra, plastica, vetro, qualsiasi cosa cioè in grado di occupare lo spazio fisico.

Nelle opere esposte a Lucca , il progetto che sta sotto è ben celato e solo l’onestà intellettuale dell’artista, del gallerista e anche dell’editore consente di trovarne le tracce. I particolari ingranditi nelle prime pagine del raffinato catalogo, secondo una suggestiva idea di Vittorio Giudici, nel solco peraltro della sua tradizione[12], danno modo di penetrare subito, con una sorta di montaggio accelerato delle immagini, nelle pieghe intime del corpo delle opere. La visione dei disegni – che attengono peraltro esclusivamente alla preparazione delle scenografie, ma, visti autonomamente sono allo stesso tempo opere a se stanti e una sorta di “sinopia” delle “carte nere” – dà la misura di quanto sia elaborato il lavoro che sta dietro il quadro, il quale non è affatto frutto di improvvisazione, ma di un’accurata ricerca espressiva, secondo il (mai invecchiato) criterio leonardesco che per poter disegnare un braccio devi conoscere bene la struttura anatomica nascosta sotto la pelle.

Questo metodo conferisce una immediata classicità alla produzione di Fraddosio, molto evidente nelle grandi opere sopra ricordate. In esse è lampante l’organicità del rapporto fra la progettualità (la struttura anatomica sottocutanea) e l’esito finale.

Anche le “carte nere” esprimono questa duplicità che le rende, per un verso, enigmatiche, oscillando l’interpretazione fra l’uno e l’altro significato della “rappresentazione” che esse danno della realtà, e, per un altro, di straordinaria leggibilità, identificandosi immediatamente in esse la “pregnanza” che la materia stessa di cui sono fatte esprime.

Da un punto di vista iconografico, verrebbero in mente i Cretti di Burri, ma sarebbe sbagliato. Burri è un artista fondamentalmente concettuale, anche quando sembra inclinare verso una sorta di tardo-espressionismo.

Se si vuol trovare un punto di riferimento meno opinabile, bisogna pensare a Kiefer, il più grande artista moderno, dopo Bacon, nel quale la programmaticità dell’intenzione, talvolta smaccata, trova sempre la sua naturale risoluzione nella potenza espressiva delle opere, con un perfetto controllo dell’elemento randomico, pur presente in quasi tutte.

Ma se dovessi citare qualcuno che opera in maniera analoga (se fosse ammissibile un paragone del genere), più che a un artista figurativo penserei a un compositore, Xenakis, anch’egli architetto, che ho già ricordato: le sue partiture hanno una ferrea struttura, ma, proprio per questo, riescono a esprimere tutto il caos interno, il mistero, quasi sempre orrendo, in tutta la sua brutalità.

Anche sotto la superficie delle carte esposte a Lucca si può indovinare una sorta di pentagramma. C’è un elemento di casualità (il colore mischiato col bitume crea effetti incontrollabili), ma è imbrigliato nella gabbia formale. E queste opere pretendono di disporsi in sequenza, esattamente come una composizione musicale, pur mantenendo una loro autonomia espressiva. Con in più l’elemento della spettacolarizzazione, per cui l’artista ricostruisce lo spazio, lo interpreta, inserendovi dentro anche il tempo della fruizione, addirittura le pause.

A volte affiorano parvenze di immagini riconoscibili, come il negativo di un paesaggio lunare, o terreno, ma visto dallo spazio, ecco un fiume, anfratti, la natura violentata, poi ci rendiamo conto che è solo la nostra naturale predisposizione a rintracciare immagini familiari nelle cose che vediamo – come quando riconosciamo un volto in una nuvola, o in una macchia di umidità sulla parete – che ci porta a quelle identificazioni. L’universo ha una forma estetica? Xenakis è convinto di sì. Ma, a mio parere, è una forma casuale, e nello stesso tempo ripetitiva (i frattali); è difficile che vi siano “scarti significativi” dalla norma, che sono invece la caratteristica, e la grandezza, dell’opera d’arte umana. È l’uomo che dà una forma leggibile all’universo.

Sia Xenakis che Fraddosio si misurano costantemente col “senso del mistero”, che, come sostiene Zanussi, è quello “che unisce l’arte e la scienza”[13]. La differenza sta nel fatto, a mio avviso, che mentre la scienza tenta di penetrare il mistero, per quanto possibile, l’artista, invece, conscio non solo della sua insondabilità, ma anche della sua imprescindibilità, come tale, ai fini dell’esistenza, si limita a “fronteggiarlo”, o, al massimo, a organizzarlo in una forma che lo renda meno temibile. Nel caso di Fraddosio, le sue “carte” sono, come ho detto già, dei grumi di colore nero, dai quali ogni tanto emerge un raggio di luce, ma non vi è nulla di improvvisato nella realizzazione: sotto l’apparente bruitisme vi è un lavoro di riflessione, di progettazione (da scienziato), con cui tenta appunto di resistere alla potenza del mistero, che però rimane tale.

 

La bandiera nera nella gabbia sospesa

È il titolo della grande opera esposta all’Arsenale, nel Padiglione italiano della Biennale di Venezia, allestita da Sgarbi, è una sorta di presenza immanente e imprescindibile.

Si tratta di una grande “bandiera nera” (fibro-legno modellato, cemento, catrame e asfalto liquido) costretta in una gabbia di ferro sospesa a un cavo. Come se fosse stata bloccata mentre sventolava trionfalmente. Imprigionarla, rinchiuderla, frenarne il moto, è andare contro la sua natura. Viene in mente subito “the sough and swing of a mighty wing/The prison seemed to fill[14]

La bandiera non è ripiegata, infatti, ma sta continuando a ondeggiare e l’effetto, quasi paradossale, è che la gabbia, nonostante gli ampi spazi fra le sbarre, sembra avere imprigionato anche il vento che la faceva fremere. È una sorta di “contrappunto negativo” alla trionfale Vittoria di Pevsner o, se mi è consentita una metafora[15], potrebbe essere uno degli albatros di Baudelaire, «vastes oiseaux des meres», con le immense ali ricoperte di bitume, che le appesantisce impedendogli di riprendere il volo.

La gabbia può essere in movimento o restare immobile. Date le dimensioni e il peso, essendo semplicemente agganciata a un cavo, ha, comunque, delle inevitabili, leggere vibrazioni, le quali accentuano l’impressione che, da un momento all’altro, la “prigioniera” possa liberarsi, che l’energia compressa, a un tratto, debba esplodere. Del resto, sempre Eliot:

«But neither arrest nor movement. And do not call it fixity,/Where past and future are gathered. Neither movement from nor/towards,/Neither ascent nor decline»[16]

 

Rocco Familiari

Note:
[1] La Sicilia è un arcipelago, a cura di Lucio Barbera e Gabriele Simongini, Roma, De Luca, 1998.

[2] La scena era divisa in due parti, fortemente integrate però, una cella da un lato e una camera da letto dall’altro, al centro una colonna-scultura che divideva ma anche collegava i due ambienti.

[3] Rocco Familiari, L’odore, Venezia, Marsilio, 2006.

[4] Teatro di Messina, 2004/2005, regia di Walter Manfrè, con Vanessa Gravina.

[5] Regia di Mario Missiroli, con Flavio Bucci.

[6] Nel testo occupano ampio spazio le prove che i personaggi-attori fanno sul testo shakespeariano.

[7] «Il genere umano/non può sopportare troppa realtà» (T. S. Eliot, Four Quartets).

[8] Questa, per la verità, è la famosa lettura di Michel Foucault (nell’introduzione a Les mots et les choses, Parigi, Gallimard, 1966), estremamente suggestiva, ma poco probabile nel punto in cui sostiene che la coppia reale fosse dietro uno specchio-spia, vale a dire una lastra trasparente che consentiva di vedere, ma non di essere visti, e che solo il gesto del personaggio all’estrema sinistra del quadro, Nieto, che scosta la tenda facendo entrare la luce, fa scoprire. Il fatto è che all’epoca gli specchi erano vetri ricoperti da uno strato d’argento, perciò non trasparenti.

[9] L’espressione è del compositore greco Xenakis, anch’egli, fra l’altro, architetto (lavorò con Le Corbusier alla costruzione della Cappella di Ronchamp, quella nella quale, non a caso, l’architetto razionalista distrusse il suo stesso codice normativo).

[10] «Una grazia del senso, una luce bianca che sta ferma e si muove» (T.S. Eliot, Four Quartets).

[11] «Indisciplinate squadre di emozioni» (T.S. Eliot, Four Quartets).

[12] La sua La casa Usher ha pubblicato alcuni fra i più bei libri dell’editoria italiana, supportata a volte da quello straordinario fotografo che è Buscarino.

[13] Krzysztof Zanussi, in una conversazione con il filosofo ortodosso Vladimir Legojda, alla Biblioteca dello Spirito di Mosca, il 18.1.2011, (Krzysztof Zanussi, L’Europa, l’arte, l’uomo, in «La Nuova Europa», 2, 2011).

[14] «Il fremito di un’ala possente entrò a un tratto nel carcere» (O. Wilde, The Ballad of Reading gaol. La splendida traduzione del verso è di Ariodante Marianni, che curò anche un’edizione della ballata per l’Istituto Internazionale del Disco, recitata da Enrico Maria Salerno).

[15] Krzysztof Zanussi (nella conversazione già citata) afferma che la nostra generazione è stata educata alla cultura dell’“analogia” della “metafora”, cultura che oggi i giovani sembrano avere smarrito.

[16] «Ma né arresto né movimento. E non la chiamate fissità./Quella dove sono riuniti il passato e il futuro. Né moto da né verso,/ Né ascesa né declino» (T.S. Eliot, Four Quartets – la traduzione di questo passo, come dei precedenti citati, è tratta da T.S. Eliot, Quattro Quartetti, trad. it. di Filippo Donini, Milano, Garzanti, 1976).

Se c’è oggi un esponente che nella sua produzione racchiude come pochi altri i concetti di “fatica di mente“ e “fatica di corpo” come qualcosa di complementare e non più di antitetico questi è Antonio B. Fraddosio. Architetto, pittore, scultore, scenografo, intellettuale, come definire il nostro artista? Ecco proprio quest’ultimo termine, nella sua onnicomprensività, è quello che meglio rappresenta Fraddosio, che sta ormai emergendo come una delle personalità più originali e interessanti del nostro panorama contemporaneo. «Ma, come giustamente osserva Pedrag Matvejeviç, l’originalità di questo scultore, pittore, disegnatore e poeta, è tutto ciò contemporaneamente, non si lascia ridurre a facili analogie né costringere dentro abituali categorie. L’originalità non è garantita in anticipo, né nell’opera e neppure nel nostro approccio ad essa», ed in Fraddosio è proprio la sintesi e la conseguenza del processo creativo insito in ogni vero artista.

In lui si sostanzia infatti il rapporto dialettico tra istinto e ragione, ispirazione e metodo, caos e ordine, classico e anticlassico (che possono poi ricondursi in ultima analisi alla filosofia aristotelica e alla sua poetica del “fare” da un lato ed alla filosofia neoplatonica ed alla sua poetica del “creare” dall’altro) rapporto dialettico che è alla base stessa di ogni fare artistico e che si è di volta in volta sostanziato nei contrasti tra Rinascimento e Manierismo, Classicismo e Barocco, Positivismo e Romanticismo, Razionalismo ed Espressionismo, fino al dibattito tra figurazione ed astrazione, tra realismo ed arte concettuale ancora vivo ai giorni nostri. Spesso questi rapporti dialettici sono stati, dalla storiografia delle varie epoche, personalizzati a loro volta in scontri tra grandi artisti: Raffaello e Michelangelo, Caravaggio e Annibale Carracci, Bernini e Borromini, via via fino a Picasso e Dalì, Matisse e Mondrian, Guttuso e Burri.
Nel secolo appena trascorso, poi, dopo i grandi fermenti rivoluzionari che sembravano aver definitivamente decretato la “morte” dell’arte o quanto meno delle sue forme e tecniche più tradizionali, proprio nell’ultimo scorcio si è assistito a un prepotente e massiccio “ritorno all’ordine” che non è più stato vissuto come qualcosa di passatista o rétro ma al contrario ha assunto esso stesso un aspetto quasi liberatorio o addirittura provocatorio, cosicché oggi possiamo dire che dipingere una natura morta o un paesaggio è attuale così come esporre una istallazione piena di sassi o carta straccia e che un artista informale o concettuale è “moderno” quanto un iperrealista o un neomanierista.
Insomma si può dire che finalmente, non contano più le etichette o gli “ismi” ma piuttosto la qualità della produzione estetica, ed ecco allora che un artista poliedrico e difficilmente inquadrabile in uno schema predefinito come Antonio B. Fraddosio può essere giudicato e apprezzato proprio per l’indubbio fascino e valore delle sue opere. Ma attenzione, essere senza etichettature non significa essere avulso o isolato da quanto si è prodotto finora, tutt’altro; significa piuttosto vivere determinate tradizioni e d esperienze passate come stimoli e non come camicie di forza. Così, come molto opportunamente ha osservato Gabriele Simongini, nel saggio di introduttivo del catalogo della mostra “Tensioni e torsioni” del 2004: «in modi e forme molto personali Fraddosio si ricollega a quella stagione creativa che nella seconda metà del Novecento ha portato alcuni rigorosi artisti italiani a dare vita all’avventura dell’attraversamento e del superamento della superficie della tela verso altre dimensioni» e qui vengono citati Fontana e Burri, Castellani e Manzoni, Bonalumi e Dadaimaino: «Mentre però – continua Simongini – molti degli artisti prima citati erano i cultori di un azzeramento radicale di qualsiasi emozionalità pittorica… Fraddosio non è interessato a fare una tabula rasa troppo radicale. Sa essere per certi versi minimale, dando voce a pochi colori e a strutture essenziali, ma comunque lasciando parlare l’inquietudine di una materia che dà immagine a quelle che si potrebbero chiamare “cartografie dello spirito”, fatte di avvallamenti, anfratti, dirupi, sentieri interrotti, crepacci, pendii dilavati».

Del resto Fraddosio è un architetto, conosce come pochi i risvolti più segreti della materia, sia essa legno, pietra, cartone, cemento, sa quale ordine interno si celi dietro il caos apparente o al contrario come la più classica delle strutture nasconda in sé abissi di ignoto. Proprio dopo aver meditato sulle opere del nostro artista mi è capitato di passare davanti al Pantheon, il più “classico” dei monumenti esistenti al mondo, anzi l’essenza stessa della “classicità” e di notare per la prima volta tra quei marmi e quelle pietre, fessure, sbrecciature che si sono aperte ai miei occhi come voragini improvvise, romantiche percussioni di infinito che mi hanno fatto amare ancor di più quel monumento già da me tanto amato e me ne hanno fatto apprezzare ancor di più la modernità sconvolgente e assoluta.
E allora ho compreso come questo retaggio classico che ogni artista italiano (e parlo ovviamente di artisti veri) porta con sé ne rappresenti la differenza rispetto a pur sommi artisti stranieri. Nel caos disperato di Pollock c’è la ribellione tangibile verso una civiltà metropolitana sempre più frenetica e consumistica ma non c’è, ovviamente, nessuna ombra di ordine o di retaggi del passato; nell’apparente informe casualità dei cretti di Burri vi è invece tutto il rigore concettuale della tradizione storica italiana, cui anche Fraddosio, a suo modo, è molto sensibile.
Tra le opere di Fraddosio che bene riassume la sua poetica mi piace citare Tensioni, in legno, stucco e catrame, del 2000, magistralmente descritta da Rocco Familiari nel suo scritto critico “La parete vivente”.
Ancora un “quadro-parete” è Alterazioni del ’98, che si sviluppa tutto in senso orizzontale e riassume in sé ordine e casualità, classico e anticlassico, rigore e improvvisazione, mentre Lesione, sempre del ’98, tutto incentrato sul contrasto del bianco dello stucco e del bruno del legno, vive di interne tensioni, così come Macrolesioni del ‘2000, con la sua superficie lacerata e piena di fratture. In Dilavamento dell’anno successivo il colore diviene protagonista, con quella colata di arancio che si fa strada quasi a fatica tra il grigio della materia circostante. In Arianna sempre del 2001, un filo sottile si dipana lungo la superficie bianca lasciando impercettibili tracce di sé e recuperando una piena valenza pittorica che diventa quasi esuberantemente barocca in Legature. Mentre la sua esperienza di scenografo emerge in tutta la sua creatività in Torsioni del 2003, con quella grata che fa capolino tra la cascata bianca di stucchi e carta, sbarra di prigione o retaggio neoplatonico che ci riporta fino al Verrocchio e al suo sublime monumento funebre a Piero e Giovanni de’ Medici in San Lorenzo a Firenze. Ed emerge anche in altre sue “Pareti” bianche che sembrano fatte apposta, e spesso lo sono, per fungere da fondali di rappresentazioni teatrali e divenire esse stessi schermi dove proiettare altre immagini, giochi di luce, contrasti di tenebre. Ma la materia, in Fraddosio, diventa sempre più intercambiabile ed allora ecco un lamierino in ferro piegarsi e avvolgersi come carta da paco in Lamiera del 2004, o il legno e il cartone assumere quasi la morbidezza di una stoffa in Permeazioni dello stesso anno. In Compressioni su monolite del 2005 tutta la poetica precedente viene riassunta in queste due pareti in sé autosufficienti che però al contempo si attraggono, si respingono, dialogano e si ignorano, specchio di sé, ma anche un po’ di noi stessi, come osservava appunto Familiari. Il tema del paesaggio urbano, memore dell’informale di Mimmo Rotella e dei suoi cartelloni pubblicitari strappati e ricomposti in un nuovo (dis)ordine affiora ad esempio in Stratificazioni urbane, o in Dislocazione sempre del 2005, fino al drammatico Ruderi metropolitani del 2006, struttura in costruzione lasciata incompiuta o piuttosto residuo di qualche edificio distrutto? Feto mai nato, come lo definisce lo stesso artista?
«La mia ricerca -scrive Fraddosio- è tutta imperniata sull’uso di materiali di recupero, abbandonati nei cantieri o nei laboratori artigiani e che sono stati lasciati lì, in balia dello scorrere del tempo. In questa società che divora e brucia rapidamente tutto, io cerco di recuperare questo materiale, che già ha un passato, la presenza del tempo dentro di sé e lo sottopongo a operazioni che enfatizzano tutta la sofferenza che nasconde al suo interno (che è poi la sofferenza interiore di tutti noi) fino a farne un’opera d’arte». Ed in questa dichiarazione di intenti si misura l’affinità (di cui abbiamo già parlato), ma anche la distanza della poetica di Fraddosio da quella di Burri e dei suoi cretti. Quest’ultimo infatti ri-ricrea artificialmente le alterazioni e le scissioni della materia bruta quasi non fidandosi completamente di essa, non ritenendola degna di entrare così com’è, nella sua nuda crudezza, nell’Olimpo dell’arte.
Fraddosio al contrario si affida completamente ai materiali di scarto, li coltiva, li purifica col suo amore di artista e novello Pigmalione li trasforma in Galatea, li riscatta in autentiche opere d’arte. Operazione questa in apparente perfetta coerenza con la poetica del Concettuale, ma anche qui con qualche notevole differenza. Gli artisti concettuali infatti sono convinti che basti l’intenzione, il gesto, l’atto in sé per trasformare una tela rovesciata, una finestra rotta, un sasso trovato per strada in un’autentica opera d’arte. Fraddosio sa invece benissimo che tutto questo non è sufficiente, che la fatica di mente da sola, senza la conseguente fatica di mano che la supporti, può rimanere un’operazione fine a sé stessa ed allora questi materiali di scarto egli li riplasma, rilavora, “rifatica” fino a piegarli completamente alla propria visione estetica.
Un’operazione dunque che più che a un Kounellis o a un Beuys si richiama a Pier Paolo Pasolini (non a caso definito da Fraddosio “il più grande poeta del Novecento, oltre ogni polemica e altra considerazione”) e alla sua poetica del “Dopostoria”. Nelle periferie degradate di Roma, nelle baracche informi sorte spesso a pochi metri da resti memorabili di acquedotti e archi romani ormai quasi irriconoscibili, lo scrittore/regista, come testimoniano tra l’altro Mamma Roma o La ricotta riconosceva comunque indelebili tracce di quella storia che ci differenzia da ogni altra nazione al mondo; certo è una storia ormai decadente, giunta a un suo dopo, ma che può comunque sublimarsi e riscattarsi grazie alla forza purificatrice dell’arte, cinematografica o poetica nel caso di Pasolini, figurativa e plastica nel caso di Fraddosio. Brandelli di muro come cuori straziati, come scrive un altro grande poeta amato da Antonio, Ungaretti: «Di queste case/non è rimasto/che qualche/ brandello di muro… È il mio cuore/il paese più straziato».

Bisogna poi dire che l’arte di Fraddosio assume nelle sue ultime prove toni sempre più concitati e angosciati, come anche i titoli delle sue opere testimoniano: Scissura, Sfibramento, Vortice, Lacerazione, o ancora Compressioni esplosive, dove la materia viene trattenuta fino allo spasimo di un singulto interiore, dove il tempo diventa esso stesso materia che quasi si può toccare con mano; dove, ancora una volta, l’apparente caos della materia stessa trova un riscatto proprio nella bellezza dell’arte che riesce a sublimare anche il più informe groviglio trasformandolo in un bellissimo principe, quasi Materia al limite, come recita una delle sue composizioni più recenti. Ancora in Decoesioni siamo attratti come in un labirinto misterioso che apre inquietanti misteri (il buio della mente del celebre film di Chabrol?) celati dentro rassicuranti ghirigori di bianco, o sorpresi dal sottile gioco di “mettere” e “levare” che traduce in chiave astratta l’eterno dualismo michelangiolesco del contrasto fra forma e materia in Distorsioni e in altre sue opere recenti che sembrano quasi una rilettura in chiave astratta proprio dei Prigioni del Buonarroti, con le superfici che ora zigzagano in uno spigoloso serpentinato, ora si flettono più dolcemente in spirali quasi barocche.

Le opere di Fraddosio, per ammissione dello stesso artista, non vanno però solo viste, ma in qualche modo vissute, respirate, odorate e allora vi si può cogliere il profumo di salsedine che sempre si porta con sé chi è nato in riva al mare, come il sottoscritto in quel di Messina o come appunto Antonio in quel di Barletta, e allora davanti a certe sue recenti pitture-sculture nuovamente memori di Tapies che paiono relitti di navi, o barche, abbandonate, mi lascio trascinare in poetici ricordi, e mi appare dolce la luna piena che si riflette di sera sulle strade bagnate recidive di primavera e dolce ormai è anche il ricordo della città sul mare dove passeggiavo col cane tra nugoli di zanzare fino alla piazza del Duomo ripiena di puttane: c’erano anche i battoni che ridevano da lontano e io ancora non capivo e me ne andavo pian piano poi il mio cane è morto e son rimaste le zanzare a farmi compagnia in quella città sul mare. E la capacità evocativa delle opere di Fraddosio, specie le più recenti, che recuperano anche forti contrasti cromatici, spaziano dall’alba alla notte, dal gelo di certi bianchi che sembrano evocare scenari degni del Fargo dei fratelli Cohen ai deserti infuocati di un tramonto a Petra o una notte sull’Etna.
Ma quello che più apprezzo in Fraddosio è il suo continuo sperimentare, il suo continuo mettersi in gioco, cercare nuove strade, nuove provocazioni, come la sua recentissima opera, scelta da Pedrag Matvejeviç per rappresentate Fraddosio alla Biennale di Venezia 2011, Bandiera nera sospesa, a mio parere la più bella e innovativa tra tutte le opere esposte al Padiglione Italia e che lo stesso Matvejeviç così descrive: «Una struttura curvilinea, realizzata con i materiali cari all’artista, legno, cartongesso, catrame, imprigionata dentro una struttura di metallo arrugginito. È un oggetto di straordinaria potenza evocativa e simbolica, che meriterebbe di diventare l’emblema di una rassegna che rappresenta uno sforzo inaudito di imporre il senso, l’imprescindibilità, dell’arte, in un tempo e in una società che sembra invece rifiutarla ». Mentre Fraddosio, dal suo canto, così parla della sua opera: «Una bandiera, se non sventola, non è. È un brandello di stoffa appeso. Questa bandiera nera, colore dell’anarchia, dilaniata, è disperatamente ferma in uno sventolio rimasto solo nella memoria, chiusa in una gabbia che invece può muoversi: rotazione, oscillazione, lenta, rapida, agitata. Toccala, spingila, trattienila, inventa un rapporto fisico con lei, sporcati le mani, senti l’odore perché il niente dolore, niente fatica, niente sudore, niente freddo, niente caldo, niente odore, “conquiste” della civiltà occidentale, ci hanno fatto perdere umanità». Io dal mio canto, posso solo aggiungere che se dovessi scegliere una colonna sonora per questo meraviglioso “grido” artistico di Fraddosio non potrei non scegliere l’altrettanto meravigliosa canzone di Jacques Brel Amsterdam e in particolare la sua strofe finale:

Dans le port d’Amsterdam
Y a des marins qui boivent
Et qui boivent et reboivent
Et qui reboivent encore
Ils boivent à la santé
Des putains d’Amsterdam
De Hambourg ou d’ailleurs
Enfin ils boivent aux dames
Qui leur donnent leur joli corps
Qui leur donnent leur vertu
Pour une pièce en or
Et quand ils ont bien bu
Se plantent le nez au ciel
Se mouchent dans les étoiles
Et ils pissent comme je pleure
Sur les femmes infidèles
Dans le port d’Amsterdam
Dans le port d’Amsterdam.

 

Sergio Rossi

“L’inverno non importa se ci saremo ancora
Davanti a noi i giorni le notti sfumano
La nostra memoria è un pesante relitto
Un balcone crollato il nostro avvenire
Denudiamo un corpo che si rispetta
La cui spoglia è un corpo vestito
In resistente amalgama d’ombra e di spazio”.

Paul Eluard (“A Raoul Ubac”)

 

Cartografie dello spirito

Un mare di ghiaccio, anzi, “Il mare di ghiaccio”. Da giorni, pensando alle opere di Antonio Bernardo Fraddosio, il ricordo di una qualche immagine, per molto tempo indefinita, affiorava e poi scompariva dalla mia mente, lasciando un senso profondo d’insoddisfazione per il mancato riconoscimento. Poi, durante l’ultima visita nei suoi due studi di Tuscania, quell’immagine da fantasma lontano si è svelata in tutta la sua potenza, come una rivelazione. Era uno dei sublimi capolavori di Caspar David Friedrich, “Il mare di ghiaccio” (1824; Amburgo, Kunsthalle), con quelle punte aguzze che svettano aggressivamente verso il cielo, nel dialogo fra bianchi ed azzurri, nel mare di silenzio di un paesaggio che evoca l’eternità divina nella quale restano imprigionati i poveri relitti di una nave affondata. Ora, mutatis mutandis, qualcosa di quel deserto ghiacciato, scavalcando due secoli, sembra tornare nelle corde extra-pittoriche di Fraddosio, con quelle deflagrazioni materiche che aggrediscono e segnano lo spazio con una specie di dolce violenza che attrae ed al tempo stesso mette in stato d’allarme l’osservatore. Come scriveva Aby Warburg, “il presente è intessuto di passati multipli” e l’arte è percorsa da “fantasmi per adulti”, cioè da risvegli di immagini che si alternano al loro sonno: ai miei occhi qualche eco de “Il mare di ghiaccio” si propaga nelle sculture del nostro artista. Ecco, quell’opera di Friedrich e i lavori di Fraddosio (basta pensare a “Sconnessione” oppure a “La materia del tempo”, solo per fare due esempi), senza voler fare paragoni azzardati e fuori luogo in termini di intensità, lasciano però affiorare una sorta di comune concordia discors, la capacità di unificare elementi opposti facendoli vivere l’uno nell’altro senza separazioni concettuali. Sia “Il mare di ghiaccio” di Friedrich che le opere di Fraddosio sono, in qualche modo, cartografie dello spirito fatte di avvallamenti, anfratti, dirupi, sentieri interrotti, crepacci, pendii dilavati. In Friedrich la finitezza dell’uomo convive con l’infinito della natura, la solitudine individuale cerca un dialogo con l’armonia dell’universo, un senso panico del mondo si rispecchia nell’afflato divino. In Fraddosio, la costruzione è anche distruzione, la struttura è destrutturata, la nascita del nuovo implica la fine esplosiva del vecchio, lo spazio è concavo e convesso, la vitalità convive con un profondo senso di disfacimento, la speranza con la disperazione, l’aspirazione ad un volo liberatorio porta con sé la paura della caduta. “Se un albero fiorisce – scriveva Rilke – fiorisce la morte in esso come la vita, e il campo è pieno di morte, che dal suo volto supino germoglia una ricca espressione di vita, e gli animali trapassano pazienti dall’una all’altra”.

 

Cantieri della crisi

Nel novero degli artisti oggi emergenti con forza, Fraddosio dà corpo più che immagine, vista la fisicità dei suoi lavori, ad un’idea profonda di crisi relativa alla nostra epoca, alla necessità di una scelta fra ciò che sta crollando e quello che sta faticosamente emergendo in modi ancora indistinti e faticosi. “Crisi delle utopie, crisi dei progetti, crisi dei modelli – ha scritto Yves Michaud con parole che Fraddosio potrebbe ben condividere- perfino crisi della storia divenuta finzione. Dal punto di vista collettivo, il capitalismo e la globalizzazione sono ormai l’ambiente, senza esterno, in cui ci tocca vivere.[…] Il tempo si è per così dire appiattito: non comporta più la dimensione di un fine ultimo che faceva luccicare il futuro”. Eppure, nelle opere “critiche” di Fraddosio, così colme di tensioni, torsioni, compressioni (si intitola “Compressioni esplosive” un bellissimo lavoro del 2008 in cui dal relitto di una finestra sembrano staccarsi con fatica due ali d’angelo minacciate da una tensione esplosiva), connessioni e sconnessioni, fratture ed imprevisti ricongiungimenti, il bianco generato in modi diretti dalle diverse materie ha una valenza quasi kandinskiana, porta con sé il “silenzio della nascita”, dopo il fragore della fine. L’ombra e la luce restano quasi intrappolate in questi assemblaggi scultorei, rincorrendosi senza sosta, annidandosi in un anfratto o emergendo con forza da un elemento in poderosa tensione, adagiandosi su una superficie opaca o riflettendosi su un frammento lucido. Pare così di entrare anche fisicamente in una dimensione che prelude all’alba di una nuova epoca e forse lo spettatore prova quasi il desiderio di aggrapparsi a questa specie di zattere pericolose, aguzze ma dotate di un’intima spinta dinamica. Sono opere da affrontare fisicamente e psicologicamente e non tanto da contemplare, quanto da vivere come un’esperienza, in piena sintonia con le ricerche contemporanee più convincenti. L’estrema “fisicità” di questi lavori impone un confronto diretto che sembra contrapporsi con forza alla virtualità e alla smaterializzazione oggi imperante. Ne promanano un desiderio di sostanza e una tensione verso la ricerca di nuovi valori che per certi versi già entrano in sintonia con quella “Età dell’Autenticità” di cui ha recentemente parlato lo scrittore inglese Edward Docx e che potrebbe finalmente sostituirsi al postmodernismo.

In un cortocircuito continuo, elettrizzante come una scarica di energia, l’artista sembra spingere percettivamente fuori dalla superficie dell’opera l’osservatore con le forme convesse per poi invitarlo immediatamente a entrarvi dentro con quelle concave, quasi senza soluzione di continuità ma comunque suggerendo un ritmo percettivo che deve svolgersi nel tempo senza esaurirsi nel puro e semplice colpo d’occhio. Nella dialettica fra unità e varietà di questo percorso, le opere del nostro artista, viste da una certa distanza, sembrano muri, pareti impenetrabili. Viceversa, avvicinandosi, si avverte con forza una pluralità di possibilità e di aperture, di ipotesi vitali e di emergenze immaginative. L’opera si dà e si nega al tempo stesso, da muro diventa porta e soglia che separa il visibile dall’invisibile. Diventa un organismo plastico che fa incontrare spazio interiore e realtà esteriore, accomunati in una nuova identità. Lo spettatore è libero di rimanere tale guardandoli da una posizione rigorosamente esterna e quasi asettica ma questi lavori svelano tutta la loro carica esplosiva quando si ha il coraggio di mettersi in gioco, percorrendoli con lo sguardo e con le mani fino alle viscere e scoprendo infiniti punti di vista, imprevisti, che li rendono sempre diversi, metamorfici e sorprendenti.

Lo si vede bene nell’opera fondamentale presentata nel Padiglione Italia (Arsenale) alla 54° Biennale di Venezia, “Bandiera nera nella gabbia sospesa” (metallo ossidato, fibrolegno modellato, cemento, catrame), che reclama di essere agitata, cullata e ruotata, quasi divelta per liberare quel vessillo prigioniero che è un po’ l’anima di ognuno di noi. Con un amaro paradosso, l’unica che può sventolare muovendosi nello spazio è quindi la gabbia mentre la bandiera è condannata a vivere del riflesso di quel movimento e giace immota come un animale costretto tra le sbarre. Così il minimalismo assertivo della gabbia esalta per contrasto quel vessillo combusto e annichilito, emblema inquietante di resa ed impotenza collegabile forse alle molteplici crisi del nostro tempo. Nella contrapposizione fra costrizione ed aspirazione alla libertà, tornano alla mente queste riflessioni di Paul Klee: “L’uomo è per metà prigioniero e per metà alato. Ognuna delle due parti in cui è lacerato il suo essere, accorgendosi dell’altra, prende coscienza della propria tragica incompiutezza”. E non a caso l’ombra gettata dall’opera sul pavimento sembra visualizzare un essere alato che sta per uscire dalla sua prigione, con un effetto quasi teatrale che non si può fare a meno di mettere in rapporto con la prolifica attività di scenografo del nostro artista. La “Bandiera nera nella gabbia sospesa” ha il suo alter ego nell’ombra, con l’ipotesi di un possibile finale, come in uno spettacolo teatrale concluso da un enigmatico punto interrogativo. Così, nei suoi esiti recentissimi esemplificati al livello più alto proprio in quest’opera, Fraddosio mette in campo un rapporto sempre più attivo e coinvolgente con la dimensione ambientale ed installativa, la più adatta, sotto certi aspetti, per mettere in stato di allerta critica visitatori abitualmente anestetizzati da un bombardamento incessante di immagini ipnotiche. Restando fedele al proprio linguaggio sismico e destabilizzante, il nostro artista non si chiude mai nella turris eburnea del gioco formale fine a se stesso, proprio perché prende atto ed in qualche modo registra le scosse che agitano la nostra società e ne innerva le proprie opere con una mirabile osmosi fra forma e contenuto in cui l’intento simbolico si fa tutt’uno, inestricabilmente, col fatto plastico senza mai prevalere freddamente ed isolatamente.

Partito da un profondo studio della spazialità dinamica barocca (soprattutto Borromini) e da una chiara eredità informale (Burri in particolare ma anche i “frammenti di forme” costruite su potenti torsioni e tensioni di forze di Francesco Somaini) poi superata con una riflessione sull’attraversamento e il superamento della superficie della tela, verso altre dimensioni, portati avanti da Fontana, in primis e quindi da Manzoni, Castellani, Scarpitta, Scheggi, tra gli altri, Fraddosio per molti anni ha cercato con inesausto rigore la propria strada intimamente necessaria. Pur meditando attentamente sull’integrità oggettuale e plastica delle fasce in tensione di Scarpitta e sul minimalismo dei pionieristici ferrocementi di Giuseppe Uncini, il nostro artista ha avvertito la loro misurata appartenenza all’iniziale boom economico di un’Italia positiva ed ottimista e comunque ad una nascente “cultura dell’oggetto”. Fraddosio sente invece con forza la complessità dell’odierna civiltà del flusso, dell’instabilità, della frammentazione e così, emblematicamente, fa esplodere con una tensione profondamente espressionista le bande di Scarpitta e le strutture di Uncini, dando corpo plastico ed ambientale al suo “cantiere della crisi”: lo si vede bene, ad esempio, nel potente frammento di un’opera come “Torsioni”. Egli ha infatti individuato un topos della nostra epoca nell’immagine dei ruderi metropolitani, dei cantieri interrotti, delle “grandi” opere incompiute e lasciate per decenni a perenne memoria dell’inutilità e del deturpamento ambientale: le rovine di tante Torri di Babele contemporanee finite nel nulla. Ne è emblema scarnificato e visionario un’opera come “Ruderi metropolitani”. Così Fraddosio si sta liberando dai riferimenti precedenti e tutti interni all’ambito artistico per volgersi verso un personale “reportage” sulla crisi e sull’incompiutezza che ci circondano concretamente e non solo simbolicamente. Le fratture che percorrono come terremoti la superficie delle sue opere mettono a nudo le crepe nascoste di un modo di vivere asettico, indifferente, anestetizzato. Le sue antiarchitetture destabilizzanti, fatte anche di umili materiali di recupero e prive di qualsiasi levigata compiutezza, fanno emergere il ritratto di un mondo che deve ormai fare i conti col proprio malessere più profondo, quello esploso con la crisi economica, la rivoluzione delle piazze arabe, la rivolta nelle periferie londinesi, ecc. Un mondo praticamente inabitabile come le opere di Fraddosio, disintegrato in mille frammenti alla deriva e privo della luce di qualunque faro consolatorio. E in tal modo le metamorfosi del frammento, così potenti e radicate nella nostra contemporaneità che si nutre voracemente di frantumazioni, vengono esaltate da Fraddosio con una consapevolezza che trova un rispecchiamento in quel che Salvatore Settis ha più volte sottolineato: “ […] (come scrisse Paul Valery) il frammento ha in sé una invincibile necessità, il germe di qualcosa, “qualcosa che vale di più di un significato, la spinta ossessiva ad essere completato”, la perentoria eloquenza dell’incompiuto. La condizione di frammento intensifica il senso, acuisce lo sguardo dell’osservatore; insomma, è “moderna”. Nonostante ciò, la vocazione costruttiva di queste opere è testimoniata anche dal fatto che esse non riempiono banalmente lo spazio ma lo generano di volta in volta con esiti sempre diversi. Questo percorso trova una perfetta rispondenza nelle riflessioni di Michel de Certeau (in “L’invenzione del quotidiano”, 1980): per resistere alla drammatica alienazione della vita urbana, è necessario “articolare una geografia seconda, poetica”, in cui sia fondamentale cercare “le reliquie del senso e talvolta i loro scarti, i resti capovolti di grandi ambizioni”. Ecco, Fraddosio svela anche il fallimento del sistema dominante, nella vita e nell’arte, fondato sul mito della produzione, dell’efficienza, del consumismo.

Inoltre il prolifico connubio fra costruzione e distruzione di questi lavori evoca anche una sorta di “messa in scena” senza tempo dell’idea di rovina che non può non richiamare alla mente il profondo legame dell’artista con Roma, “un luogo in cui il tempo si disintegra”, per dirla con le parole di Henry James. La città in cui, come scriveva Goethe nel suo “Viaggio in Italia”, “si trovano tracce di una magnificenza e d’una distruzione che oltrepassano entrambe la nostra immaginazione. Quello che i barbari hanno lasciato in piedi, hanno devastato gli architetti della Roma moderna…Questa gente lavorava per l’eternità; e teneva conto di tutto tranne che della follia dei devastatori, alla quale tutto deve cedere”. Sono parole attualissime, anche pensando a quel che avviene tutt’oggi nella Città Eterna e che certo non sfugge ad un artista sensibile come Fraddosio, particolarmente attento alle emergenze dell’architettura e dell’urbanistica contemporanea nel difficile dialogo fra salvaguardia dell’antico ed esigenze di una metropoli del XXI secolo.

Eppure, c’è ancora qualcosa di più che si lega ad una sorta di tensione organica, in quelle forme che si girano e si torcono, si annodano e si snodano sotto l’impulso di uno sforzo ancestrale, di un desiderio primordiale, come tronchi di vite e edera intrecciati che traggono dal cuore della terra il nutrimento e l’appoggio. In questo senso negli esiti più convincenti della sua ricerca c’è un’unità vivente che si radica nelle emergenze critiche della nostra epoca ma che trae linfa pure da sommovimenti vitali ed archetipi. Architetto, scultore, pittore e poeta, Fraddosio padroneggia ed unifica una polifonia di tecniche e di strategie creative capaci di sintonizzarsi anche con quella compresenza delle differenze e con quel pluralismo che danno l’immagine più “riconoscibile” all’arte del nostro tempo.

La sua attività demiurgica fonde completamente la tensione immaginativa con l’elaborazione manipolativa della materia, nel senso a suo tempo indicato da Henri Focillon: “le materie comportano un certo destino o, se si vuole, una certa vocazione formale […] Possiamo dedurne una regola più generale, che si collega al principio del destino o della vocazione formale enunciato dianzi: cioè che le materie dell’arte non sono intercambiabili, vale a dire che la forma, passando da una materia ad un’altra, subisce una metamorfosi”. E in effetti Fraddosio, nel suo creativo cantiere aperto sulla crisi del nostro tempo, ha individuato e messo in opera materie assai diverse che hanno a che fare con l’idea di costruzione edilizia ed urbana (di origine fossile come l’asfalto liquido e il catrame o di origine calcarea come il cemento), con la natura (l’acqua, il legno e i lapilli), col linguaggio artistico (la pittura acrilica, la carta e il gesso), con una contaminazione arte-natura-metropoli che corrisponde perfettamente anche dal punto di vista tecnico e materico agli obiettivi della sua ricerca.

 

Le carte

Nelle carte, poi, la devastazione e l’usura della superficie nascono emblematicamente dall’incontro-scontro fra materie “organiche” e materie chimiche, i cui colori reali e mai artefatti danno vita all’opera. A questo proposito suonano quanto mai attuali le parole di un inquieto visionario come Goya: “Nella natura, il colore non esiste più della linea; datemi un pezzo di carbone e vi farò un quadro; perché tutta la pittura è nei sacrifici e nella decisione”. Dalle carte di Fraddosio promana una “verità” interiore che combacia con un’immemorabile “storia naturale infinita” (per dirla con Klee) e che si deve anche alla rinuncia al pigmento pittorico in senso rappresentativo per cercare una personale alchimia della materia che coincida con i più intimi stati della coscienza dell’artista. In tal senso per le sue carte Fraddosio potrebbe ben condividere quanto ha scritto Vasco Bendini: “i miei quadri sono la materializzazione del mio pensare, sentire, immaginare, intesa come un vero e proprio calco della gestazione di una serie di eventi della mia coscienza. Questa costante attenzione al processo di formazione delle immagini, strutture, relazioni della mia mente, attenzione che si traduce in immagini pittoriche, ripropone, attraverso tali simboli figurali e sintattici, il flusso ininterrotto del mio processo mentale”.

In queste opere Fraddosio deve comunque misurarsi con un supporto bidimensionale che riduce le possibilità di espansione plastica ed ambientale permesse dalle sculture ma ciò favorisce anche una sorprendente ampiezza di soluzioni e variazioni intorno allo stesso motivo: almeno in un paio di carte (“Trama nera” e “Linea d’ombra”) pare già di scorgere come in una visione il reticolato della gabbia e la bandiera nera che danno vita all’opera attualmente presentata alla Biennale di Venezia. L’aprirsi sul piano bidimensionale di forme-materia che si squadernano liberamente e senza alcuna volontà rappresentativa ci conduce in un’altra dimensione rispetto al lavoro di Venezia, un ambito più intimamente visionario e raccolto ma completamente lontano dall’idea di progetto. Così le carte, nel percorso di Fraddosio, sono micromondi in sé autonomi e pur dialoganti con i ruderi metropolitani di cui per alcuni aspetti finiscono con l’essere l’alter ego bidimensionale e cosmogonico.

  

Inseguendo il difficile

In ogni caso la vocazione creativa del nostro artista è essenzialmente “antipittorica”, rifuggendo l’uso del pigmento cromatico tradizionale e delimitando la sua ricerca entro gli estremi opposti del bianco e del nero, i cosiddetti “non colori”, a cui si aggiunge in alcune opere recenti il grigio. Sia nelle carte che nelle sculture, al di là di qualsiasi schema concettuale che accomuna la scelta della materia ad un’idea, l’opera nasce esclusivamente dalla totalizzante azione psico-fisica di Fraddosio che proprio per questo lavora senza progetto privilegiando il conflitto purificatore con la materia nato da un impegno illimitato e privo di remore: “Soltanto combattendo – spiegava Ingres – si acquista qualche cosa e, nell’arte, il combattimento è la fatica che si fa”. Come pareti da scalare con un’arrampicata del più alto grado di difficoltà, le sue opere sono innervate da una vocazione alla fatica che rinnega qualsiasi facilità esecutiva per mettere in luce ciò che è difficile e che vale la pena di essere inseguito con ogni sforzo: “ La gente (con l’aiuto di convenzioni) ha dissoluto tutto in facilità – scriveva Rilke e Fraddosio può ben condividere queste parole – e della facilità nella più facile china; ma è chiaro che noi ci dobbiamo tenere al difficile; ogni cosa vivente ci si tiene, tutto nella natura cresce e si difende alla sua maniera ed è una cosa distinta per sua virtù dall’interno, tenta d’essere se stessa ad ogni costo e contro ogni resistenza. Poco noi sappiamo, ma che ci dobbiamo tenere al difficile è una certezza che non ci abbandonerà; è bene essere soli perché la solitudine è difficile; che alcuna cosa sia difficile dev’essere una ragione di più per attuarla”.

Ogni intuizione del nostro artista si concretizza, attraverso un concentratissimo pensiero corporeo, nella scelta di materie precise e trae impulsi sempre nuovi dalla loro stessa natura oltre che dal processo operativo mantenuto costantemente aperto alla sperimentazione ed all’intervento improvviso, alla felice e rischiosa precarietà del gesto e dell’azione. Oggi l’arte, relegata in una marginalità ininfluente, ridotta a puro e semplice investimento economico e trasformata in ancella dello strapotere mediatico ed iper-tecnologico, non può consolare né promettere la felicità, ma può cercare di scuotere alcune coscienze iniettando l’antidoto del senso critico e prospettando la possibilità di un mondo diverso e tuttavia ben radicato nel terreno della vita. “L’arte – scriveva Rabindranath Tagore – non è un fastoso sepolcro perduto nel sogno immutabile di una eternità solitaria di secoli svaniti. Essa appartiene al procedere della vita, e si adatta costantemente alle sorprese che l’assalgono, esplorando santuari di realtà sconosciuti lungo il suo pellegrinaggio verso un futuro tanto differente dal passato quanto lo è l’albero dal seme”. Ecco, Antonio Bernardo Fraddosio si è incamminato su questa via.

Gabriele Simongini

L’artista pugliese racconta il significato della sua installazione “Le tute e l’acciaio” dedicata al disastro dell’Ilva. L’opera fa parte di una serie dal titolo eloquente: “Quello che resta dello sviluppo”. E, a proposito di sviluppo, spiega ancora lo scultore: «Non è sinonimo di progresso, ma, come affermava Pasolini, spesso è l’opposto»

Ho conosciuto Antonio Fraddosio alcuni anni fa, quando, dopo aver scritto una recensione dedicata ai suoi lavori Carte Bianche decisi di incontrare a Roma lui e il suo curatore Gabriele Simongini.  Da quell’incontro è nata una stima reciproca e per me un’occasione in più di conoscere da vicino un artista meridionale con idee nuove dedicate all’etica dell’ambiente.

I suoi occhi scuri desiderano raccontare attraverso le opere il rispetto per l’uomo e per la natura.  Questi sentimenti di amore per l’ambiente saltano subito all’occhio quando si vedono i suoi lavori. Recentemente Fradddosio ha fatto parlare di se con una installazione intitolata Le tute e l’acciaio, dedicata al grave problema ambientale sorto attorno al’Ilva di Taranto. L’opera è stata presentata fino al 5 maggio scorso, (con un bel catalogo curato da Simongini), a Roma nella Galleria d’Arte Moderna.

Per entrare nel vivo della sua poetica, possiamo senz’altro immaginare che l’esser nato  a Barletta  nel 1951, in Puglia, una terra baciata dal sole e bagnata da un bellissimo mare, sia stato il motivo che lo hanno spinto a denunciare il disastro ambientale che l’Ilva sta provocando in tutto il territorio. Solo un cuore grande e la capacità profetica di un artista può ispirare non solo i comuni cittadini ma anche i decisori politici a risolvere questi gravissimi problemi.

La presentazione della sua opera astratta e concettuale al grande pubblico del web è stimolante perché consente a tutti di immaginare dei luoghi o delle cose che sono frutto della nostra fantasia. Ci racconta com’è nato il desiderio di creare opere che denunciano l’inquinamento ambientale?

La crisi dell’ambiente è un problema grave e complesso che da tempo si sta evidenziando ma che negli ultimi anni ha dato luogo a manifestazioni veramente critiche. La complessità del problema mi ha da tempo impegnato in un’attenta analisi non solo sugli effetti ma, anche, soprattutto, sulle cause. È fuor di dubbio, ormai, anche per concorde affermazione di scienziati, che la crisi ambientale è opera del modo in cui si evolve lo sviluppo globale.  La mia ultima opera è un installazione dedicata ai gravi effetti che il degrado ambientale provoca al territorio e alle persone. Sono arrivato a questi miei ultimi lavori dopo una serie di cicli di opere che osservano l’evoluzione complessiva degli ultimi decenni. Quest’ultimo ciclo, di cui Le tute e l’acciaio fa parte, si intitola Quello che resta dello sviluppo. Dello sviluppo che non è sinonimo di progresso. Anzi, come affermava Pier Paolo Pasolini, è il suo opposto.

Difendere l’ambiente è un dovere morale. Ricordiamo che tra gli anni ’50 e ’60 anche i poeti Allen Ginsberg e Gary Snyder denunciarono l’inquinamento con le loro opere. Anche la Beat Generation presentò forme di rivoluzioni ecologiche ispirate a una visione spirituale. In Lei quanto c’è di spirituale nei suoi lavori?

Ritengo che l’arte e ogni manifestazione creativa dell’intelletto non possano prescindere da valori spirituali. Infatti i momenti emotivi dell’artista si manifestano attraverso la sua creazione e vengono recepiti dalla sensibilità dell’osservatore. È un collegamento tra anime.

La sua arte si avvicina molto a un tipo di filosofia ambientale, tipica del mondo nordico e anglosassone, infatti, la fotografa britannica Mandy Barker con i suoi scatti denuncia l’inquinamento della plastica. Lei quanto si sente vicino a questa filosofia?

Il mio lavoro non è semplicemente descrittivo e non si limita a denunciare il degrado ambientale in sé ma vuole indicarne le cause originarie. In molte mie opere come quelle appartenenti al ciclo La costruzione della distruzione, evidenzio il concetto di distruzione costruita: l’immagine caotica dell’opera, (materie spezzate, incastrate, tese al limite di rottura) è il frutto di un’attenta composizione. E riflette il fatto che la reale e sistematica distruzione dell’ambiente è realizzata attraverso una precisa e attenta strategia tesa solo al raggiungimento dei massimi profitti economici.

Le sue opere di notevole dimensioni inglobano il dramma dell’uomo, che imprigionato dalle lobby di potere, giorno dopo giorno lo uccidono?

 Certamente. Nel 2011 presentai alla Biennale di Venezia un’opera dal titolo La bandiera nera nella gabbia sospesa. Si tratta di una grande bandiera lacerata e pietrificata nel suo sventolare. È di colore nero, che simboleggia la più alta utopica forma di democrazia: l’anarchia. Quel vessillo non sventola più ed è lacerato, chiuso in una vera e propria gabbia sospesa che, attraverso una serie di ingranaggi, ne consente pochi rigidi movimenti. Al contrario, una bandiera dovrebbe sventolare morbida, libera.  In fondo il potere fa proprio questo: distrugge lentamente l’essenza stessa dell’essere umano.

Le sue idee trasformate in opere d’arte sono comprese in Italia?  O sono più comprese all’estero?

Le mie sono opere di arte contemporanea e chi le guarda deve far seguire all’eventuale impatto emotivo un’attenzione ai significati che sono universali e quindi trattano temi comuni a tutti.

Cosa vuol dire per lei creare un’opera?

Mi considero un artista militante: per me creare un’opera d’arte in questo momento storico, è soprattutto un atto politico di reazione a un potere economico-finanziario globalizzato che ci costringe sempre di più a una condizione servile. Mi piace, visto che lei ha citato la beat generation, ricordare le parole del poeta italo americano: Lawrence Ferlinghetti, per me uno dei più grandi. Parlando del significato della poesia, in una sua raccolta intitolata La poesia come arte che insorge, scrive: «Ci sono tre tipi di poesia. La poesia sdraiata che accetta lo status quo. La poesia seduta scritta dall’establishment che si lascia dettare le sue conclusioni a proprio vantaggio. La poesia in piedi, che è la poesia di impegno a volte grandioso a volte immane». Queste parole possono essere estese ad ogni forma di arte.

Cosa ricorda della Puglia quando l’Ilva non esisteva? Secondo lei fare per risvegliare un territorio afflitto da decine e decine di morti di tumore fra operai e no cosa dovrebbe fare lo Stato?

I miei ricordi di Taranto prima dell’Italsider sono netti, ancora vivi nella memoria. Taranto era una splendida città posata tra due mari e collegata alla terra da due ponti uno dei quali girevole. Immagini, colori e odori che da troppo tempo non esistono più. Era l’odore intenso del mare, era il colore di una terra ricca e verde ed era l’immagine di pescatori, di contadini, di una città di pietra dorata. Tutto questo non esiste più. Taranto è cresciuta solo intorno al polo siderurgico senza ordine, né progetto. I quartieri Tamburi e Paolo VI dove risiedono in prevalenza gli operai, sono stati costruiti a ridosso dell’impianto industriale e del cimitero. Una macabra coincidenza che rappresenta il lavoro, la vita privata e la morte. A Taranto tutto si mescola e a morire non sono solo gli operai ma anche i loro bambini, le loro famiglie.  Bisogna dire due cose gravi: quello che sta succedendo a Taranto è un genocidio, che qualcuno ha definito una strage di futuro. Anche il territorio sta morendo contaminato dalla diossina. Un’ordinanza comunale da anni vieta il pascolo e la coltivazione nel raggio di venti chilometri dall’impianto. Che fare davanti a tanta distruzione? Uno scrittore tarantino, Alessandro Leogrande, sosteneva la necessità di de-suderurgizzare Taranto cominciando, intanto, ad utilizzare le tecnologie per ridurre le emissioni venefiche e riducendo progressivamente la produzione. Nel contempo, iniziare un opera di bonifica del territorio utilizzando tutta forza lavoro disponibile sottratta al siderurgico. Certamente un piano economicamente impegnativo ma assolutamente necessario. Oggi il siderurgico non è più italiano, si chiama Arcelormittal e fa capo a una società franco-indiana che sicuramente nell’arco di alcuni anni abbandonerà la produzione. Vorrei concludere dicendo che la responsabilità di quello che succede a Taranto è di tutte le forze politiche che hanno governato fino ad oggi che, dimentiche dei principi fondamentali della Costituzione sulla quale hanno giurato, hanno creato un mostro.

(a cura di Carmelita Brunetti)

 

Intervista originale su Indygesto.com

L’impegno “a volte grandioso, a volte immane” di Antonio Fraddosio per l’ambiente, una deflagrazione dello spirito contro il degrado ambientale. È l’esplosivo messaggio artistico dello scultore Antonio Fraddosio (Barletta, 1951) che afferma: «L’arte e ogni manifestazione creativa dell’intelletto non possono prescindere da valori spirituali». Sono queste le parole di un artista che si definisce militante, per il quale «creare un’opera d’arte in questo momento storico è soprattutto un atto politico di reazione a un potere economico-finanziario globalizzato che ci costringe sempre di più a una condizione servile». Così l’installazione Le tute e l’acciaio (Galleria d’arte Moderna, Roma; 1° novembre 2018 – 3 marzo 2019) ha riesumato il problema ambientale del caso Ilva di Taranto, e il coinvolgimento emotivo dell’artista pugliese sulla problematica è evidente: «I miei ricordi di Taranto prima dell’italsider sono netti, ancora vivi nella mia memoria. Taranto era una splendida città, posata tra due mari (…) colori e odori che da troppo tempo non esistono più (…) una città di pietra dorata».

(a cura di Nicoletta Toffano)

 

Intervista originale su Arte e Borghi – Press Reader

Nella città eterna c’è una mostra eterna. Fu inaugurata a novembre, con l’idea di durare un paio di mesi. E’ stata prorogata una, due volte, perché quella mostra è un colpo al cuore, almeno per chi ha cuore. Si trova presso la Galleria d’arte moderna, nel centro storico di Roma. Ne è artefice Antonio Fraddosio, scultore pugliese con una lunga serie d’esperienze artistiche. E rappresenta una tragedia per lo più dimenticata in quest’Italia immemore e dolente: l’Ilva.

Ora ha cambiato nome, dopo aver cambiato gestione (prima pubblica, poi privata), dopo un profluvio di leggi, di processi, di sentenze. Tuttavia la più grande acciaieria d’Europa non ha mai smesso di propagare lutti nella città di Taranto, nel quartiere Tamburi dove si diffondono le sue polveri letali. E dove muoiono gli operai così come i bambini: una strage di futuro, ricordata a febbraio con una fiaccolata. Intanto il latte materno delle donne tarantine contiene il 28% in più di diossina rispetto alla media. I tumori giovanili sono del 54% più frequenti. E la fabbrica continua ad ospitare 3750 tonnellate d’amianto, senza che ne sia mai stata avviata la bonifica.

Come si rappresenta un crimine ambientale? Fraddosio l’ha fatto con un’installazione più potente d’uno sparo. Dieci «tute di ferro», dieci cassoni in acciaio ossidato, al cui interno alloggiano altrettante lamiere modellate come panneggi antropomorfi, e poi lacerate, spazzolate, incendiate. Un’opera monumentale, che colma gli spazi dell’antico chiostro del museo. Ogni lamiera prende il nome (e il colore) dei metalli lavorati nella fabbrica: arsenico, cromo, molibdeno, nichel, piombo, platino, rame, selenio, vanadio, zinco. Mentre le tute sono l’abito indossato dagli operai dell’Ilva, per difendersi (invano) dai tumori.

Da qui, dunque, una denuncia, che per Fraddosio costituisce inoltre fonte d’ispirazione e di tensione. Lui difatti è un artista politico, se così possiamo dire. Ne ha offerto testimonianza, per esempio, nelle opere via via dedicate alla Costituzione (in ultimo Demos Cratos e La grande Carta). Nel ciclo sui Resistenti (Louise Michel, Amilcare Cipriani, Giuseppe Gracceva, Pietro Cocco, Giacomo Corcella), uomini sconosciuti ai più, che si spesero per i poveri e gli oppressi. O nella Bandiera nera nella gabbia sospesa, presentata alla 54ª Biennale di Venezia: la bandiera simboleggia l’ideale, la gabbia è l’emblema del potere che lo tiene in catene.

Ma dopotutto qualsiasi espressione artistica incarna una protesta nei confronti del potere. Giacché nell’arte si riflette un altro mondo, un ordine diverso da quello di cui siamo prigionieri. Esattamente in ciò risiede la sua forza sovversiva: nell’opposizione al principio di realtà, nella costruzione d’una realtà diversa, alternativa. «Ogni opera d’arte è intrinsecamente rivoluzionaria», diceva Theodor Adorno. E la sua efficacia è superiore alle altre forme di conoscenza, benché il linguaggio artistico non sia mai diretto come quello che s’usa in un saggio o in un trattato, benché gli artisti viaggino per allusioni, per citazioni, per evocazioni.

È infatti nella forma, nella felicità espressiva, che si manifesta la forza politica dell’arte. E questa vis colpisce l’emozione, prima che la ragione. Nel caso di Fraddosio, compone un paesaggio d’ombre, di fantasmi. Le sue figure non s’accendono in vampe di colore, piuttosto si consumano fra le scale del grigio o del bruno o del nero, illuminandosi d’un lucore malato. È la corruzione del nostro corpo sociale che traspare da quei corpi informi. Noi, però, non abbiamo occhi per vederla. E allora ci soccorrono gli occhi sgranati di un artista.

 

Michele Ainis
Pubblicato su La Repubblica il 28 Aprile 2019