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Settimo Ciclo

Superare con la ragione gli stati limite ultimi

Poi è scoppiata la pandemia. Questa pandemia, che sta cambiando ogni cosa in un tempo infinitesimale. Che, in un tempo infinitesimale, sta cambiando anche le persone. Questa pandemia, di cui abbiamo solo incerte e contraddittorie informazioni, senza apparente violenza, ha prodotto cambiamenti radicali, forse irreversibili a cui bisogna opporsi. Le conseguenze sull’economia, sulla vita sociale, sulla cultura saranno gravi e drammatiche, ma, ancor più grave, sarà il danno che subirà la nostra stessa essenza umana. Dovremmo raccogliere tutte le nostre energie per reagire a questo, coscienti del fatto che qualcuno trarrà grandi vantaggi dalla gestione di un tale disastro. Non dovremmo essere “resilienti”, un brutto termine che ha acquisito il significato di “sottomessi”. Dovremmo essere “rivoluzionari”, tutti insieme. Non dovremmo consentire a nessuno di trasformare i diritti delle genti in concessioni.

 

Cominciai a pensare ad un ultimo ciclo, all’ultimo ciclo del mio lavoro che titolai “Superare con la ragione gli stati limite ultimi”. Gli stati limite ultimi, un termine che nel linguaggio dell’ingegneria indica il momento che precede il collasso di un manufatto edilizio. Anche la psicanalisi, successivamente, negli anni ‘70, ha indicato con questo termine il confine tra la nevrosi e la psicosi, tra la mania e la follia.

E’ questo il nostro attuale stato psico-fisico. Ma sarà la capacità di ragionare ad impedirci di crollare fisicamente e di impazzire. Perciò considerai di sorprendente attualità le parole scritte da Pier Paolo Pasolini nell’articolo “Cos’ è questo golpe?” apparso sul Corriere della Sera il 24 Novembre 1974: “Io so. Ma non ho le prove. Non ho nemmeno indizi. Io so perché sono un intellettuale, sono uno scrittore che cerca di seguire tutto ciò che succede, di conoscere tutto ciò che se ne scrive, di immaginare tutto ciò che non si sa o che si tace, che coordina fatti anche lontani, che mette insieme i pezzi disorganizzati e frammentari di un intero coerente quadro politico, che ristabilisce la logica laddove sembra regnare l’arbitrarietà, la follia e il mistero”. Queste parole dovremmo farle nostre “ Noi sappiamo ma non abbiamo le prove. Non abbiamo nemmeno indizi”.

 

Hanno sospeso la nostre vite, le hanno fermate, pietrificate, hanno ucciso la nostra volontà di crescere insieme, di progredire insieme, di cambiare insieme una società sbagliata. Ci hanno imprigionato uno per uno nel corpo, nella mente e nell’anima ma senza essere stretti da lacci o catene che fanno male e alle quali istintivamente si reagisce con forza e violenza. Ci hanno avvolto in una ragnatela soffice, sottile che, con sistematica, continua progressione ci impedisce anche il più piccolo dei movimenti… Prima che arrivi il ragno.

Leggi il commento critico di Floriana Carosi sull'opera "Chi è il ragno?"

“Chi è il ragno?” Superare con la ragione gli stati limite ultimi
tecnica mista, 2020 -2022

“Ogni ragnatela ha un ragno in colpa”
(
A.Merini)

                                                                                                      

Cominciai a pensare ad un ultimo ciclo, all’ultimo ciclo del mio lavoro che titolai “Superare con la ragione gli stati limite ultimi”. Con queste parole, nell’aprile del 2020, Antonio Fraddosio, in una intervista a cura di Madia Mauro, rilasciata in occasione della “Giornata Mondiale della Sicurezza e Salute sul lavoro”, per la prima volta accennava al suo “ultimo” ciclo facendo intendere che quel “filo rosso” che lega, negli ultimi venti anni, ogni suo ciclo di opere si stava chiudendo in un cerchio che paradossalmente faceva corrispondere l’ultimo ciclo, il settimo, al primo.

Essere giunto casualmente a questo punto della sua ricerca artistica, per Fraddosio non significava chiudere i sette cicli delle sue opere che mai potranno concludersi legati come sono da temi universali ma, attraverso il simbolismo del cerchio astratto che li comprende e la forza esoterica del numero “7”, onnipresente nella cultura di ogni tempo, emblema di equilibrio, completezza e universalità, conferire un carattere misterico e suggestivo a tutto il suo percorso artistico.

Nella stessa intervista l’artista dichiarava: “I cicli sono sempre espressione di quello che si muove intorno a me e, contemporaneamente, dentro di me e tutte le opere che creo sono la formalizzazione del mio pensiero”.

Cosa stava accadendo? E perché la necessità di chiudere quel cerchio?

È lo stesso Fraddosio a rivelarlo: “Poi è scoppiata la pandemia. Questa pandemia, che sta cambiando ogni cosa in un tempo infinitesimale. Che, in un tempo infinitesimale, sta cambiando anche le persone. Questa pandemia, di cui abbiamo solo incerte e contraddittorie informazioni, senza apparente violenza, ha prodotto cambiamenti radicali, forse irreversibili a cui bisogna opporsi. Le conseguenze sull’economia, sulla vita sociale, sulla cultura saranno gravi e drammatiche, ma, ancor più grave, sarà il danno che subirà la nostra stessa essenza umana. Dovremmo raccogliere tutte le nostre energie per reagire a questo, coscienti del fatto che qualcuno trarrà grandi vantaggi dalla gestione di un tale disastro. Non dovremmo essere “resilienti”, un brutto termine che ha acquisito il significato di “sottomessi”. Dovremmo essere “rivoluzionari”, tutti insieme. Non dovremmo consentire a nessuno di trasformare i diritti delle genti in concessioni”.

L’artista, dunque, aveva percepito che in quell’inedito momento storico, di fronte a un potente nemico invisibile, nella paura, nell’incertezza e precarietà del tutto, l’essenza dell’uomo stava profondamente cambiando. Una delle cause risiedeva nel concetto di distanziamento “sociale” o più propriamente di distanziamento “fisico” che incide negativamente sull’esperienza soggettiva e psicologica delle persone poiché conduce all’isolamento relazionale dagli altri, e quindi alla solitudine.
Seppur costretto da gravi fatti, infatti, l’uomo non è “progettato” per gestire a lungo l’isolamento sociale. Come ricorda il filosofo greco Aristotele, l’uomo è un “animale sociale” e, come tale, è incapace di vivere isolato dagli altri in quanto “l’assenza di relazioni non permette lo sviluppo dell’identità personale”.
Così, il cerchio doveva necessariamente chiudersi per tornare al primo ciclo dal titolo “L’animale sociale” costituto da opere realizzate tra il 1997 e il 2007. È lì che andava recuperata quella socialità che il momento storico di pandemia aveva fatto perdere all’uomo.

Nel primo ciclo, l’”animale – uomo contemporaneo”, ancora “sociale”, già percepisce con inquietudine il cambiamento drammatico e radicale verso cui si sta avviando la società in cui vive senza, tuttavia, averne piena consapevolezza; ecco le “fratture”, “tensioni”, “sfibramenti”, opere in cui l’artista libera le ansie dell’uomo, spettatore frastornato dello spettacolo cui assiste e dove la tensione espressiva  porta il materiale stesso quasi al punto di rottura  come in “Materia al limite” del 2006, opera che anticipa “gli stati  limite ultimi” del settimo ciclo.

Fraddosio mutua il termine “stato limite” dal linguaggio dell’ingegneria strutturale dove indica una condizione superata la quale, la struttura in esame o uno dei suoi elementi costitutivi non soddisfa più le esigenze per le quali è stata progettata.  Si tratta quindi di una condizione estrema che generalmente precede il collasso di un manufatto edilizio ed ha carattere irreversibile.
Anche la psicanalisi, negli anni 70, ha utilizzato la parola “limite” per definire quegli stati borderline della personalità situati tra le nevrosi e le psicosi, tra la mania e la follia.
Sono casi clinici che mostrano le complicazioni insite nel termine “limite” quale linea fragile, mal definita che separa la realtà interna da quella esterna, l’io dall’altro; da qui una instabilità dell’identità personale, un doloroso sentimento di vuoto, un’aspirazione al nulla.

L’artista afferma: “E’ questo il nostro attuale stato psico-fisico. Ma sarà la nostra capacità di ragionare ad impedirci di crollare fisicamente e di impazzire”.

Il cambiamento drammatico della realtà e i danni subiti dalla stessa essenza umana che l’”animale sociale” già percepiva inconsapevolmente, nell’ultimo ciclo prendono prepotentemente coscienza nell’uomo. La crisi creata dalla pandemia ha reso ancora più evidenti i mali profondi del capitalismo finanziario nel mondo e ha fatto emergere la precisa e attenta strategia di un potere che deve poter controllare le idee, le coscienze e determinare il grado di “libertà” dell’essere umano.  In questa realtà “estrema” dove regna la contraddizione, il mistero, la follia, l’uomo può e deve superare lo “stato limite” attraverso la ragione, collegando e coordinando eventi apparentemente distanti negli anni, senza accettare passivamente i fatti ma soprattutto ponendosi domande. Questo è il messaggio delle opere dell’ultimo ciclo. E a tal proposito, l’artista ama ricordare le profetiche parole, scritte da Pier Paolo Pasolini nell’articolo “Cos’è questo golpe? Io so” apparso sulle pagine del Corriere della Sera, il 24 Novembre 1974: “Io so. Ma non ho le prove. Non ho nemmeno indizi. Io so, perché sono un intellettuale, uno scrittore, che cerca di seguire tutto ciò che succede, di conoscere tutto ciò che se ne scrive, di immaginare tutto ciò che non si sa o che si tace; che coordina fatti anche lontani, che mette insieme i pezzi disorganizzati e frammentari di un intero coerente quadro politico, che ristabilisce la logica là dove sembrano regnare l’arbitrarietà, la follia e il mistero”.

Ancora una volta, per Fraddosio, citando Picasso, “l’artista è un uomo politico   costantemente vigile davanti ai drammi del mondo”.

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“Hanno sospeso le nostre vite, le hanno fermate, pietrificate, hanno ucciso la nostra volontà di crescere insieme, di progredire insieme, di cambiare insieme una società sbagliata. Ci hanno imprigionato uno per uno nel corpo, nella mente e nell’anima ma senza essere stretti da lacci o catene che fanno male e alle quali istintivamente si reagisce con forza e violenza. Ci hanno avvolto in una ragnatela soffice, sottile che, con sistematica, continua progressione ci impedisce anche il più piccolo dei movimenti… Prima che arrivi il ragno”.

Con queste parole l’artista ci introduce alla prima opera emblematica dell’ultimo ciclo il cui titolo, non a caso, coincide con una domanda “Chi è il ragno?”.

L’opera comincia da quella frase interrogativa, che rappresenta il dubbio, l’enigma, che dovrà essere svelato. È la domanda dell’uomo, ormai consapevole, che vuole conoscere la vera realtà dei fatti e svelare l’identità del “Ragno-nemico” che, in modo subdolo e preciso, sta paralizzando la sua esistenza attraverso una ragnatela formata da invisibili catene. La ragnatela incute più timore del ragno e rinvia anche al concetto di labirinto. Infatti, è difficile trovare l’entrata ovvero il punto di partenza del filo che ha dato inizio alla trama.

L’opera vuole rappresentare e denunciare una situazione che è in divenire e di cui non si conosce l’epilogo finale.
Da un piano a parete che si sviluppa in senso verticale, si staccano dal fondo delle forme contorte, in tensione, molto aggettanti che cercano di liberarsi da una ragnatela che le avvolge e ne blocca i movimenti. In quasi tutti i lavori di Fraddosio le forme aggettano da un piano mentre si contorcono in un drammatico tentativo di staccarsi definitivamente. L’artista, come in altre opere, si ispira all’iconografia del Cristo crocifisso, non per il significato cristiano, bensì per il senso di sofferenza causata dal l’atrocità di questa forma di supplizio riservata ai condannati a morte: la lenta agonia di un corpo inchiodato ad una croce che si dimena nel vano tentativo di liberarsi e dopo lo sfinimento della tortura si abbandona alla morte.

Anche nell’opera c’è il tentativo delle forme di liberarsi da una condizione di costrizione: è la rappresentazione di un conflitto, di uno scontro messo in atto dall’umanità (le forme sono corpi) contro il nemico, rappresentato da un Ragno invisibile (il Male) che l’ha “incatenata” nel suo “leggero” strumento di tortura che è la ragnatela. E’ la lotta manichea tra il Bene (l’essere umano nella sua essenza interiore) e il Male che non si identifica con la Pandemia, ovvero con la “malattia” peraltro complicata dalla nuova e terribile guerra aperta nel cuore d’Europa nel marzo 2022 e dagli ultimi effetti catastrofici del cambiamento climatico bensì con quel Sistema, quel Potere, che, traendo ora grandi vantaggi dalla gestione di tali disastri, con precisa e attenta strategia, procede  nella distruzione della società,  ingabbiando idee, ideali e con esse la stessa coscienza  dell’uomo.

Fraddosio, intende sottolineare il collegamento forte che esiste tra i due eventi, Pandemia e Guerra. Siamo entrati nel nostro terzo anno di combattimento. È ormai chiaro che, dal 2020, sia scattata, in tutti i paesi coinvolti, l’identificazione tra pandemia e conflitto armato. L’inizio della pandemia ha cambiato il volto del mondo, portando i paesi a adottare misure da tempi di guerra, dalla chiusura dei confini ai lockdown, dal coprifuoco al green pass. Oggi, alla luce dell’invasione russa, l’attenzione si sposta dalla guerra al virus alla guerra sul campo al centro dell’Europa, e la metafora guerresca trionfa ancora di più. Durante la pandemia hanno attinto al repertorio delle metafore belliche e al lessico della guerra non solo medici, politici, giornalisti, ma anche comuni cittadini. Si è sentito parlare di “fronte del virus”, di “guerra” contro il virus, di “nemico invisibile”, di “trincea” negli ospedali e di “esercito” di medici e infermieri. È una cornice retorica caratterizzata da un approccio linguistico piuttosto aggressivo che ha bisogno ora, che c’è anche “la Guerra”, quella vera, di essere demilitarizzato a favore di un linguaggio più pacifista e solidale verso l’umanità sofferente.

Non ci voleva una guerra dopo una pandemia. Ma ogni pandemia ha la sua guerra. Una follia dentro una follia. Un male dentro un male.

Tornando all’opera, l’artista, quindi, rappresenta il “Male assoluto” e non i suoi effetti ben evidenziando, un concetto che aveva dato il titolo al suo secondo ciclo “La costruzione della distruzione” e i cui lavori furono presentati, nel 2012, nella mostra “I cantieri della crisi” tenutasi a Roma e a Lucca.

Così come il ragno con pazienza e grande precisione tecnica costruisce la sua tela per distruggere le sue prede che restano intrappolate nei filamenti viscosi, “qualcuno” o “più di qualcuno”, da tempo, procede nella sistematica “costruzione della distruzione” della realtà, realizzandola con attenta strategia e attenzione ai dettagli. E come per i lavori del secondo ciclo, anche strutturalmente l’artista realizza una “distruzione costruita” perché l’apparente immagine caotica dell’opera con le materie contorte, tese, spezzate, incastrate fra loro nella lotta appunto, al limite, è il frutto di una attenta composizione.

Dunque, il Male per l’artista non si identifica con un essere malvagio, ma con un sistema cui collaborano diverse presenze: ideatori malvagi, esecutori zelanti e convinti, e tanti spettatori acquiescenti, silenziosi, “ignari” della loro colpa, perbenisti, “demoni mediocri”; queste presenze sono i punti di aggancio della ragnatela attraverso le quali si attua il “Male”.  Esse rappresentano anche un po’noi stessi che non abbiamo più la capacità di ragionare e diventiamo contemporaneamente ostaggi e complici della ragnatela stessa.

Ma allora chi si nasconde dietro il ragno?

Nonostante il contenuto drammatico dell’opera, non poteva mancare il messaggio ottimista dell’artista che di questa lotta in atto auspica sicuramente vincente l’Uomo. Il segnale di speranza viene colto dall’osservatore esplorando attentamente l’opera dal basso verso l’alto:

nella parte inferiore la ragnatela avvolge le forme in maniera serrata, man mano che si sale questa comincia a perdere la sua aderenza, si smaglia, addirittura si spezza in lunghi filamenti come nel lato destro, mentre nella parte superiore sembra quasi cedere sotto la forza delle forme in movimento che cercano di liberarsi, staccandosi di più dal fondo, come corpi dinamici che si protendono verso l’alto.

Come ha scritto Gabriele Simongini: “Fraddosio invita l’osservatore ad andare al di là delle apparenze, costringendolo a superare la pura contemplazione frontale per cercare una relazione multidimensionale, guardando dentro e a fianco di ogni opera…mettendo in scena cosi la strategia della tensione tra elementi opposti e soprattutto fra concavo e convesso: in un cortocircuito continuo l’artista spinge percettivamente fuori dalla superficie dell’opera l’osservatore con le forme convesse e subito lo invita ad entrare dentro con quelle concave…suggerendo un ritmo percettivo che deve svolgersi nel tempo senza esaurirsi nel puro e semplice colpo d’occhio” .

Questo è esattamente il “ritmo percettivo” suggerito dall’opera.

Ma qui accade qualcosa di più sconvolgente.

Nella sua avventura alla scoperta dell’opera, l’osservatore è costretto a fermarsi al centro dove, gli elementi strutturali si ritraggono insieme alla ragnatela per lasciare spazio ad una cavità buia, profonda, inquietante che lo invita a curiosare dentro, a guardare l’ignoto.  È questo il “cuore” dell’opera.

Qui, l’artista, ha voluto intenzionalmente rappresentare un aforisma del filosofo F. Nietzsche che recita “Se tu scruterai a lungo in un abisso, anche l’abisso scruterà dentro di te” (cit. da “Al di là del bene e del male”).

L’abisso è il regno del “Male”. L’uomo che lo contempla è posseduto da qualcosa di più grande di lui e soprattutto estraneo alla sua natura, che lo porta alla morte morale. Da qui il senso di angoscia, di smarrimento dell’essere umano e dello spettatore dinanzi alla potenza del Male.

Perché l’artista sceglie il simbolo del Ragno?

Rare volte nell’arte e nella cultura un soggetto ha assunto un significato tanto contrastante come il ragno. Nelle diverse epoche e civiltà è stato visto come forza negativa, diabolica ma anche positiva, generatrice di vita. Il contrasto deriva dalla diversa visione che gli uomini hanno avuto e hanno nei confronti del ragno sotto due aspetti fondamentali: il predatore silenzioso e inquietante da una parte e il paziente, instancabile costruttore di tele, dall’altra. La sua ragnatela così finemente elaborata veniva paragonata alla complessità della vita e all’intrecciarsi delle varie vie del destino.  Gli antichi romani ne facevano un talismano per garantirsi fortuna e abbondanza. Per il Cristianesimo, il ragno e la sua ragnatela sono il simbolo del male, del diavolo tentatore che cattura l’anima degli uomini attratti da ogni tipo di vizio. Greci ed Egizi consideravano la ragnatela come simbolo della complessità del destino. Nella mitologia degli Indiani d’America la donna-ragno diventa la fonte e l’origine di tutte le cose.

Nell’arte il ragno e la ragnatela rimandano alle potenzialità che legano sapienza e dialettica, quest’ultima di solito raffigurata come una giovane donna intenta a tessere una tela.  In una delle immagini dipinte da Paolo Veronese (1575 – 1577) per il soffitto della Sala del Collegio di Palazzo Ducale a Venezia, la personificazione della Dialettica tiene fra le mani alzate una ragnatela, fissandola con lo sguardo. Il gesto rappresenta le parole con cui chi è esperto di dialettica – in questo caso virtù del buon governo veneziano che si autocelebra – è in grado di avviluppare l’interlocutore.

Anche nell’opera di Fraddosio si nasconde la ragnatela della “Dialettica”, ovvero quell’arte di comunicare utilizzata non come informazione e contributo alla comprensione di un fenomeno così emotivamente invadente come può essere la pandemia, ma, come tecnica e abilità per persuadere un interlocutore smarrito che tra fiducia e speranza, paura e panico resta ingarbugliato nel sottile gioco delle parole e quindi paralizzato nell’intreccio dei fili concentrici della ragnatela.

Per quanto concerne i materiali, è il contenuto dell’opera ha suggerirne l’utilizzo, qui in maniera più articolata perché il tema è complesso. I materiali utilizzati rappresentano sé stessi e assumono un valore soprattutto simbolico.

Negli elementi strutturali dell’opera egli si affida sempre ai materiali di scarto dei cantieri o dei laboratori artigiani, come gli assemblaggi di legni che riplasma, rilavora fino a rendere le forme secondo la propria visione estetica. I toni sono scuri e terrosi. Ma in questa opera utilizza, per la prima volta, due materiali nuovi e dalla valenza fortemente simbolica: il sale e la cenere.

Osservando l’opera si notano, sparse, tracce di sale bianco; il sale è simbolo di purezza ma soprattutto di incorruttibilità. Il “Cristo come sale della Terra” rappresenta la forza e la salvezza ma anche la protezione contro la corruzione.

Accanto al sale compaiono sulla superficie dell’opera macchie grigie, chiare e scure di cenere, il cui simbolismo deriva dal fatto di essere il residuo della combustione, ovvero ciò che resta dopo l’estinzione del fuoco e per questo legato al significato della morte e della caducità della vita.

Anche le macchie di ruggine derivate dall’ossidazione delle polveri di ferro, ed evocatrici del trascorrere del tempo, ravvivano da un punto di vista cromatico il lavoro che vede la presenza anche del catrame, materiale tanto amato dall’artista che qui viene usato in maniera più diluita rispetto al passato.

Se è vero che la grande poesia è sempre profezia non ci si può congedare dall’opera di Fraddosio senza far riferimento a una delle liriche più provocatorie e toccanti di Pier Paolo Pasolini, intellettuale tanto amato dall’artista, “La ballata delle Madri”.

Qui Pasolini muove una forte critica nei confronti delle madri cresciute all’insegna del capitalismo sfrenato visto come strumento per emergere dalla crisi economica del primo dopo guerra. Sono madri “vili, mediocri, servili, feroci”, tutte a loro modo incapaci di amare, che si piegano e assecondano il Potere insegnando ai loro figli i valori “borghesi” e la forza dell’odio, rispetto “ai valori del cuore “.

I figli di queste madri moralmente degradate sono anch’essi “vili, mediocri, servili, feroci” in un mondo distrutto dall’odio e dall’ipocrisia che è diventato “una valle di lacrime”; questi figli appartengono a quell’umanità di ideatori malvagi, di esecutori zelanti, di spettatori silenziosi e acquiescenti attraverso i quali si attua il “Male”, presenze intermedie che contribuiscono alla costruzione della ragnatela perché organi vitali dello stesso ragno.

Fraddosio come Pasolini vuole scuotere le coscienze assopite nella mediocrità piatta che nasce quando non ci si interroga più su nulla e non si ha il coraggio della verità, anche se scomoda. Non bisogna rinunciare al pensiero critico o ostentare un’assoluta pacatezza esteriore o servilismo dettati solo da opportunismo. Per non finire paradossalmente complici e ostaggi della ragnatela, bisogna “essere, non apparire”.

Infine, ancora un pensiero di Pasolini sul valore della coerenza morale senza ipocrisie e finzioni e su cosa siano il vero bene e il vero male:

Lo sapevi, peccare non significa fare il male: non fare il bene, questo significa peccare” (cit. dalla poesia “A un Papa”).

La vera sfida è avere il coraggio di agire per il bene.
E Fraddosio lo fa con ogni sua opera.


Floriana Carosi

Le foto dell’opera “Chi è il ragno?” sono state scattate da Maddalena Vestrella.

Opera di collegamento

Demos cratos

Dovremmo considerare la democrazia come un obiettivo da raggiungere anche se, alcuni politici occidentali, non so con quanta buona fede o con quanta ignoranza, si ostinano a definire le nostre come “democrazie compiute”.

Ho realizzato una scultura in travertino intitolata “Demos Cratos”. Rappresenta un volto solo parzialmente definito la cui parte destra è rimasta materia informe mentre la parte sinistra è assente di materia.

È questo il volto della “democrazia compiuta”: una scheggia di roccia finita , non finita e infinibile. Quest’opera collega il ciclo “Quello che resta dello sviluppo” con quello “Superare con la ragione gli stati limite ultimi”.

Sesto Ciclo

Il breve termine governa il mondo

I cicli si susseguono, si sovrappongono, si intersecano ma non si chiudono mai. Seguo una logica: capire i problemi, i fatti all’origine dei problemi. Cerco di rappresentarli nel mio lavoro di artista. Da questo si deve partire per segnare un percorso alternativo e antagonista, artistico e culturale. E’ la logica dei sentimenti e della ragione quella che seguo, non quella senza anima, quella dei numeri, delle percentuali, degli algoritmi, delle statistiche, delle false convenienze, dello spread che decide per tutti. Un artista non si può più accontentare di presentare come opere d’arte le proprie sperimentazioni formali, gli effetti di un evento o di una condizione esistenziale personale. É dal 1947 che l’arte, tutta, viene veicolata e gestita totalmente dalla politica del “potere” attraverso gli strumenti meno democratici di cui dispone (si ricordi la vicenda dell’espressionismo astratto e la C.I.A.).
In questo momento storico l’arte deve fare essa stessa politica, mettere contenuto nelle opere e non solo. Gli artisti devono mettere la politica, nella sua accezione più alta, nel loro lavoro. Tutta la produzione artistica che non si ispira a questo principio, per me fondamentale, è ormai da considerarsi stantia, ridotta a mera decorazione, a orribile operazione finanziaria gestita da ricchi per i ricchi.

 

“Quello che resta dello sviluppo” è il ciclo che comprende i miei ultimi lavori.

L’installazione “le tute e l’acciaio” è l’opera più rappresentativa del ciclo. Un’opera dedicata al popolo di una città del sud dell’Italia: Taranto e al suo territorio che, in nome dello “sviluppo”, è stato gravemente e forse irrimediabilmente danneggiato. Ma l’opera si deve considerare universale perché quello che accade in quella città accade ormai ovunque nel mondo. E dopo? Come deve proseguire il mio lavoro?

 

Guidavo la mia auto ascoltando un programma radiofonico quando la trasmissione fu interrotta: il ponte “Morandi” di Genova era crollato, collassato in pochi secondi. Una tragedia apparentemente imprevedibile la cui portata in termini, anche di vite umane, ancora non si apprezzava. Ho studiato architettura negli anni settanta e ricordo bene che nel corso di tecnologia, quel manufatto di ingegneria lo avevamo esaminato e analizzato in ogni sua parte, soprattutto per l’innovazione tecnica utilizzata (il cemento armato precompresso) che consentiva ardite soluzioni strutturali. In circa sessanta anni il ponte era passato da un esempio di moderna concezione tecnologica a massa informe, “informale”, un groviglio di macerie: ferro e cemento non più ordinato in una relazione di complessi calcoli matematici ma in un caotico ammasso che imprigionava vite umane.

Non mi fu difficile individuare immediatamente una stretta relazione con l’impianto del siderurgico di Taranto. Anche quello in fondo, dopo sessanta anni, si era trasformato da esempio di sviluppo, di crescita e di benessere in uno strumento di morte e distruzione.

Sessanta anni sono meno della vita media di un essere umano, sono meno di un “attimo” della vita dell’umanità. Come è possibile che nonostante i progressi realizzati dall’uomo negli ultimi duecento anni accada che gli effetti di questo progresso si risolvano in una assurda autodistruzione? Semplicemente perché non si trattava di reale progresso bensì solo di sviluppo delle tecnologie. Lo sviluppo della tecnologia, se non è accompagnato da una adeguata crescita del pensiero, produce inevitabilmente danni. Ormai è il breve termine che governa il mondo perché è il “profitto” che governa il mondo. Il profitto richiede tempi rapidi per avere senso. Negli ultimi due secoli il “profitto” si è appropriato di qualunque manifestazione della vita umana condizionandola. Anche l’arte ne è contaminata. Così nasce questo mio ultimo ciclo, in continuità con il precedente e in relazione con ogni altro ciclo realizzato (l’animale sociale, la costruzione della distruzione, resistenti oltre, salvarsi dal naufragio).

 

Gli uomini non sanno più pensare in termini lungimiranti. Non sanno più pensare. Una condizione, questa, che non si è manifestata naturalmente bensì è stata indotta. La ormai famigerata “classe dominante”, sempre più esigua numericamente, sempre più ricca economicamente e, purtroppo, sempre più forte politicamente, per continuare ad essere tale, per conservare ed aumentare il potere che detiene, deve annullare qualunque capacità critica delle persone ed ottenere il loro consenso.

Per fare questo si deve cominciare con l’oblio della storia, se necessario cancellandola o modificandola arbitrariamente secondo il proprio particolare interesse. Se si cancella la memoria in un individuo, si cancella la sua stessa storia. Così si annulla la sua capacità di relazionarsi con altri, la sua capacità critica e con essa quella di pensare, di progettare il futuro, di capire i processi per poterli cambiare. Egli risponderà solo a sollecitazioni dell’immediato e quelle saranno elaborate da chi il potere lo ha concentrato nelle proprie mani. Tutto sarà imposto soprattutto attraverso messaggi subliminali diffusi con le moderne raffinate tecnologie digitali. Dovrà provenire dalla stessa classe egemone che gestirà anche il dissenso popolare al solo scopo di orientarlo secondo le proprie necessità e poi narcotizzarlo, svuotarlo delle istanze che lo avevano fatto nascere: niente violenza, niente repressione apparente, solo manipolazione delle coscienze.

Leggi l'intervista pubblicata su Agr Press

GIORNATA MONDIALE DELLA SICUREZZA E SALUTE SUL LAVORO. INTERVISTA AD ANTONIO FRADDOSIO, ARTISTA IMPEGNATO
(A CURA DI MADIA MAURO)

L’artista pugliese Antonio Bernardo Fraddosio ha svolto a lungo l’attività di architetto e scenografo. Da oltre vent’anni si dedica esclusivamente alla scultura e alla pittura nel suo studio di Tuscania. Questa scelta radicale è legata a forti motivazioni ideali. Per Fraddosio, citando Picasso, «l’artista è un uomo politico costantemente vigile davanti ai drammi del mondo».

Antonio, il tuo percorso artistico si sviluppa attraverso cicli collegati e sempre orientati su temi universali. “Il breve termine governa il mondo” è il sesto ciclo. Come tu stesso affermi, i cicli si susseguono, si sovrappongono, si intersecano ma non si chiudono mai. Proprio come l’arte. Ci spieghi in che cosa consistono e qual è il collegamento tra i tuoi lavori?

C’è un filo rosso che lega gli ultimi venti anni del mio lavoro e che unisce ogni ciclo di opere e ogni opera che ho realizzato. Si tratta di una specie di libro con cicli che rappresentano capitoli e opere che rappresentano pagine. I cicli hanno un inizio, sono tra loro interconnessi ma, trattando temi universali, non si concludono mai. Sono storie senza un finale. Nella mia produzione non c’è un’opera che non appartenga ad uno dei cicli o che addirittura non faccia parte di più cicli contemporaneamente. I cicli sono sempre espressione di quello che si muove intorno a me e, contemporaneamente, dentro di me e tutte le opere che creo sono la formalizzazione del mio pensiero.

 

“Mater Matuta” è un’opera da te realizzata circa un anno fa ma che hai deciso di mostrare al pubblico proprio in questo periodo di isolamento attraverso il tuo canale di youtube. Come nasce il progetto e quindi l’idea di proporla attraverso il web?

La “Mater Matuta” è un’opera che appartiene al ciclo “Il breve termine governa il mondo”. La “Mater Matuta” è un’antica divinità italica venerata anche in epoca romana e successivamente fino ad oggi nella figura della Madonna. L’immagine iconografica rappresenta una donna con un bambino tra le braccia. È l’aurora, la nascita della vita, la nascita del mondo. L’opera, in realtà, è uno studio preparatorio a cui seguirà una scultura di grandi dimensioni. Ho realizzato questo lavoro scolpendo alla maniera antica un blocco di marmo di Carrara opponendomi, già nella scelta del materiale, al “breve termine”. Il marmo è materia antica, che si forma nel tempo e rimane nel tempo. Se osservi l’opera, una donna nell’atto di procreare, non ti sfuggirà che nel rappresentare il suo corpo e il viso del bambino, ho utilizzato differenti linguaggi artistici che nei secoli si sono avvicendati: il verismo classico a rappresentare la giovinezza e la vigoria, l’espressionismo a rappresentare la decadenza e la vecchiaia, l’informale a rappresentare l’inizio e la fine, la materia da cui nasce tutto e in cui tutto muore. La base, che è parte integrante dell’opera, rappresenta il cerchio dell’esistenza umana e la sua continuità. Il movimento circolare dell’opera è lento, a tratti incerto, con brevi impercettibili pause ma continuo. È la fatica del nostro stesso esistere. Ma la testa del bambino che appare tra la materia e un corpo di donna è lì a rappresentare la certezza di un domani da costruire. Tutto questo è il senso che lega l’opera al ciclo.

Io sono restio ad eccedere nell’uso della tecnologia per rappresentare un’opera artistica, tuttavia ho ritenuto di pubblicarla sul mio canale youtube (https://www.youtube.com/watch?v=IjQLJx5-lgg) perché in questo momento storico, drammatico, che ci costringe a disumane limitazioni della nostra stessa libertà, può rappresentare l’occasione di riflessione per cambiare con energica positività un mondo che si sta rivelando sbagliato. L’opera non auspica la ripresa delle nostre esistenze sospese così come ci verrà imposto a poteri superiori che neanche conosciamo, ma una vera e propria rinascita nostra, di tutti. Dopo non basterà essere resilienti. Occorrerà essere rivoluzionari.

 

“Quello che resta dello sviluppo” è il ciclo che comprende alcuni dei tuoi lavori tra cui l’installazione “Le tute e l’acciaio” che è stata esposta alla Galleria d’Arte Moderna di Roma. L’opera, la più rappresentativa del ciclo, è dedicata al popolo di una città del Sud dell’Italia: Taranto. Cosa rappresenta questo progetto, in particolare oggi che è la Giornata Mondiale per la Sicurezza e la Salute sul Lavoro?

Sono pugliese e conosco bene quel territorio fin da prima della nascita del siderurgico. Ho assistito al progressivo lento inesorabile degrado ambientale e umano di quel territorio. In quell’impianto, che chiamano stabilimento, la sicurezza e la salute sul lavoro è inesistente. Anzi direi che lì si muore sul lavoro per incidenti di ogni tipo e anche per malattie contratte nel tempo lavorando in quella fabbrica. Praticamente si scambia, in spregio assoluto della nostra Costituzione, il lavoro con la vita. Comunque quello che accade in quella città non è un episodio territoriale ma un problema globale che ci coinvolge e colpisce tutti. Questo è il messaggio contenuto nell’installazione “Le tute e l’acciaio”. Vorrei che la Giornata Mondiale per la Sicurezza e la Salute sul Lavoro non fosse un giorno della memoria, ma un quotidiano impegno per impedire che di lavoro si continui a morire.

 

Cosa ha determinato il passaggio dal ciclo legato alla tragedia dei lavoratori dell’Ilva a quello che comprende la “Mater Matuta”?

Avevo da poco smontato l’installazione “Le tute e l’acciaio” e continuavo a riflettere su quanto un vasto territorio, in nome dello “sviluppo”, era stato gravemente danneggiato e quasi distrutto, e come questo si dovesse considerare un tema universale. Poiché quello che accade a Taranto accade, sempre più spesso, ovunque. Ero in auto e ascoltavo un programma radiofonico quando la trasmissione fu interrotta per comunicare che il ponte sul Polcevera di Genova era crollato. Collassato in pochi secondi. Una tragedia apparentemente imprevedibile la cui portata in termini di vite umane ancora non si apprezzava. Ho studiato architettura nei primi anni settanta e ricordo bene che, nel corso di tecnologia, quel manufatto d’ingegneria lo avevamo analizzato in ogni sua parte, soprattutto per l’innovazione tecnica utilizzata: il cemento armato precompresso. In circa sessanta anni il ponte era passato da un esempio di moderna concezione tecnologica a massa informe “informale”. Un groviglio di macerie: ferro e cemento non più ordinato in una relazione di complessi calcoli matematici, ma in caotico ammasso che imprigionava vite umane.

Non mi fu difficile individuare immediatamente una stretta relazione con l’impianto del siderurgico di Taranto; anche quello, in fondo, dopo sessant’anni si era trasformato da esempio di sviluppo in uno strumento di morte e distruzione. Sessant’anni sono meno della vita media di un essere umano, sono meno di un attimo della vita dell’umanità. Come è possibile che nonostante i progressi realizzati dall’uomo in duecento anni accada che gli effetti di questo progresso si risolvano in una autodistruzione? Semplicemente perché non si trattava di reale “progresso”, bensì solo di “sviluppo delle tecnologie”. Lo sviluppo della tecnologia, se non è accompagnato da una adeguata crescita del pensiero, produce inevitabilmente danni. Ormai è sempre di più il breve termine a governare il mondo perché è il profitto che governa il mondo. Il profitto richiede tempi rapidi per avere senso. Negli ultimi due secoli il profitto si è appropriato di qualunque manifestazione della vita umana e anche dell’ambiente condizionandoli prima e tentando di sottometterli oggi.

Così nasce questo ciclo in continuità con il precedente e in relazione con gli altri. (“L’animale sociale”, “La costruzione della distruzione”, “Resistenti oltre”, “Salvarsi dal naufragio”). Gli uomini non sanno più pensare in termini lungimiranti.

 

Come è cambiato e in che modo proseguirà il tuo lavoro dopo un periodo così difficile che ha colpito duramente tutti i settori, soprattutto quello artistico e culturale?

Di questa pandemia, non certo estranea all’inquinamento ambientale, non sappiamo niente; sono incerte e contraddittorie le informazioni che ci vengono date dai virologi, scienziati privi di sapienza, che ci hanno portato, senza apparente violenza, a cambiamenti radicali forse irreversibili a cui noi abbiamo il dovere di opporci. Le conseguenze, nei settori dell’economia, della cultura, ma anche del tempo libero saranno gravi, drammatiche. Ma ancor più grave sarà il danno che subirà la nostra essenza umana. Dovremo raccogliere tutte le nostre energie per non subire questo danno di incalcolabili proporzioni coscienti del fatto che qualcuno o qualcosa trarrà vantaggio da questo disastro annunciato. Ho cominciato quindi a lavorare ad un ultimo ciclo che ho intitolato “Superare  con la ragione gli stati limite ultimi”. È un termine, questo, che in ingegneria indica la condizione di un manufatto edilizio, superato il quale, si verifica il collasso di una struttura. Anche la psicoanalisi, successivamente, negli anni ’70, ha indicato con questo termine quella condizione della mente umana posta al limite tra la nevrosi e la psicosi. Questa è la nostra attuale condizione psico-fisica. Ma sarà la nostra capacità di ragionare ad impedirci di crollare fisicamente e impazzire. Non sarà facile realizzare opere che contengano questo messaggio, ma il mio lavoro artistico è questo e non vedo altro modo di continuare.

 

Intervista originale su AgrPress

Leggi il commento critico sull'opera di Floriana Carosi

IL BREVE TERMINE GOVERNA IL MONDO, “MATER MATUTA”
DI FLORIANA CAROSI

“Così a un’ora fissa Matuta soffonde con la rosea luce dell’aurora le rive dell’etere e spande la luce… E’ fama che dalle alte vette dell’Ita si assista a questi fuochi sparsi quando sorge la luce, poi al loro riunirsi come in un unico globo, formando il disco del sole e della luna…”   Da De rerum Natura – Lucrezio

La storia dell’uomo è un concatenarsi di eventi spesso apparentemente distanti. Così, lavorando ad un ciclo, nascono opere che anticipano il ciclo seguente. Con queste parole, lo scultore, Antonio Fraddosio, spiega il “filo rosso” che lega, negli ultimi venti anni, ogni ciclo di opere e ogni opera realizzata. Attraverso alcuni lavori, i cicli si sovrappongono, hanno un inizio ma non una chiusura poiché trattano temi universali. Sono capitoli senza finale di un grande componimento, anch’esso senza finale.

Il breve termine governa il mondo segue e nasce dal precedente ciclo di opere Quel che resta dello sviluppo.

Lo sviluppo, spiega l’artista, non è sinonimo di progresso macome affermava Pier Paolo Pasolini, spesso ne rappresenta l’opposto. Il primo mette al centro le tecnologie, il secondo l’uomo e il suo pensiero.

Il degrado ambientale è una delle conseguenze dell’evoluzione dello sviluppo globale.

L’ultima opera di Fraddosio, l’installazione dal titolo Le tute e l’acciaio dedicata al grave problema ambientale sorto intorno all’Ilva di Taranto, rappresenta un atto politico di reazione dell’artista ad un sistema economico-finanziario di tipo liberista, sempre più globalizzato all’interno del quale tutto viene realizzato secondo una precisa e attenta strategia tesa solo al raggiungimento dei massimi profitti economici e dove l’uomo è costretto sempre più ad una condizione di servilismo.

La causa di tutto ciò è quella che Fraddosio definisce la visione a breve termine del mondo ovvero l’eccessiva attenzione da parte dei Governi ai risultati conseguiti a breve termine a scapito di quelli che si conseguiranno soltanto nel lungo. Tipico esempio è l’assillante preoccupazione delle imprese di perseguire profitti immediati sacrificando obiettivi strategici di più lungo corso e la creazione di un valore di più ampio respiro sociale.

In questo tempo l’uomo è sempre più ripiegato sull’oggi, su traguardi ravvicinati nel tempo; di qui la necessità di tornare ad occuparsi del futuro a lungo termine, delle generazioni che verranno e del rispetto delle loro vitali esigenze, assicurando meccanismi di sviluppo sostenibile nel tempo e obiettivi articolati su archi temporali estesi.

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Per la realizzazione delle opere del nuovo ciclo, di cui Mater Matuta fa parte, Fraddosio sceglie materiali che si oppongono concettualmente al “breve termine”; sono materiali che vengono da un passato lontano e continueranno ad esistere nel lontano futuro, nel “lungo termine”; sono i materiali classici della storia antica: marmo di Carrara, pietra, bronzo e, per la prima volta nella sua produzione artistica, compare la ceramica lavorata con tecniche antiche.

Non è la prima volta che l’artista si confronta con l’immagine-simbolo della Mater Matuta. Nel 2017, per il ciclo Salvarsi dal naufragio, aveva realizzato in legno e catrame l’opera Mater negra. Mater Matuta, concentrandosi sul ventre gonfio di una donna di colore, in gravidanza, divenuta emblema dell’Africa quale culla dell’Umanità.

Ma è in questa opera in marmo che l’artista, in linea con il significato universale della Mater Matuta ha tradotto in termini plastici la complessa simbologia della dea arricchendola di originali contenuti personali.

Chi è Mater Matuta?
Il culto della Gran Madre affonda le sue radici in epoche lontane, preistoriche ed è tipica della realtà mediterranea. La Mater Matuta, in particolare, ne sarebbe una singolare variante di origine Italica, entrata poi a far parte del mondo romano; nella mitologia a Roma, la Mater Matuta era la dea del Mattino o dell’Aurora, la prima luce che abbraccia la Terra e allontana le tenebre ed il buio della notte, la madre dell’inizio di un nuovo giorno, della vita, ed in senso più stretto della fecondità e della nascita. A lei era dedicato un tempio nel Foro Boario, nell’odierna area di sant’Omobono e la sua festa (Matralia) veniva celebrata l’11 giugno. Numerosi esemplari di Matres che coprono un periodo dal VI al I secolo a.C. sono conservati nel Museo Campano di Capua. Si tratta di statue in tufo raffiguranti donne sedute su troni con bimbi in fasce sulle braccia, in atto di offerta alla dea Matuta, tutrice della maternità e della fecondità.

Ma il culto della Dea Madre ed il mistero della procreazione come evento prodigioso ad essa legata risale a tempi molto più antichi, addirittura al Paleolitico se si interpretano in tal senso le Veneri “steatopigie” della cui figura femminile stilizzata sono messi in risalto, nella loro smisurata evidenza, il ventre, i seni e le natiche.

La Mater Matuta è anche la più antica prefigurazione dell’iconografia mariana del Cristianesimo.

La più antica scena di parto conosciuta nell’arte europea, risalente a 2.600 anni fa, raffigura una donna –madre di profilo con il braccio alzato, ginocchio sollevato e una lunga treccia sulla spalla dal cui corpo fuoriescono la testa e le spalle di un bambino.

La scena è rappresentata su un frammento di recipiente in bucchero, rinvenuto nel sito archeologico etrusco di Poggio Colla in provincia di Firenze.

All’aspetto della sacralità della nascita sono anche correlate le rappresentazioni di parto conservate in vari bassorilievi di epoca romana.

Una scena di parto dall’alta valenza simbolica, risalente al XVII secolo, da considerarsi unica nel panorama scultoreo sacro, chiude questo brevissimo excursus storico e, pur nella sua diversità, ben ci introduce all’opera di Antonio Fraddosio.

La scena è rappresentata sulle otto facciate dei quattro basamenti su cui poggiano le colonne dell’altare del Bernini in San Pietro. Tra lo stemma di Urbano VIII Barberini che commissionò l’opera e le chiavi di San Pietro, Bernini ha rappresentato una testa di donna, la cui espressione in progressivo mutamento indica le varie fasi di un parto: il volto femminile inizialmente si contrae per le prime doglie, quindi gli occhi si stravolgono, i capelli sono scompigliati, la bocca da socchiusa si apre in un urlo. Nell’ottavo e ultimo stemma la testa di donna è sostituita da quella allegra e paffuta di un bambino, a significare che il travaglio si è concluso felicemente con la nascita di una nuova vita.

Bernini ha raffigurato le fasi del parto concentrandosi sull’espressione del volto della donna-madre che, addirittura, alla fine della sequenza, si tramuta nel volto del bambino-figlio.

Anche Fraddosio realizza una scena di parto, ma ben diverso è il percorso visivo e concettuale rispetto all’opera di Bernini.

Mater Matuta è l’immagine di un corpo femminile, in realtà di esso solo il tronco, con il ventre misteriosamente gonfio, nell’atto di dare alla luce un figlio del quale si intravede una zona ben levigata del viso e una parte ancora imprigionata nella pietra informe insieme al corpo della madre. L’opera richiama il significato universale della dea primordiale legato alla maternità, alla nascita, divenendone però solo un aspetto. Nell’opera di Fraddosio, infatti, il momento della nascita convive con quello della morte: una parte del corpo giovane e vitale della donna con il ventre gonfio convive con l’altro, ormai sfiorito e decadente per la maturità, addirittura decomposto nella morte. Artefice della trasformazione è il tempo che trascorre inesorabilmente e visibilmente sul corpo della donna – madre; è il tempo della gestazione…. ma è, soprattutto, il tempo della vita…

Così, scrive Michele Ainis, costituzionalista e scrittore, a proposito di questo duplice aspetto ricorrente nell’opera dell’artista: “E’ la cifra distintiva di Fraddosio, la sua capacità d’imprimere una forma allo sformarsi, alla dissoluzione delle cose…L’elemento unificante delle sue costruzioni risiede perciò in una decostruzione, in una destrutturazione. La struttura è il reale, per come si manifesta al nostro sguardo: una superficie levigata, con un ordine che attinge dalla razionalità dell’intelletto. Però al di sotto pulsa un braciere d’istinti e di emozioni, e c’è in ultimo la morte, prima e dopo ogni esistenza”.

L’artista realizza questi passaggi attraverso il processo scultoreo le cui fasi sono completamente opposte a quelle del processo della vita.

Nella scultura classica, dalla massa informe della materia si arriva alla contemplata serenità della pura forma; nell’opera di Fraddosio, la materia levigata, rifinita e lucidata di un lato del corpo florido della donna – madre, materia levigata foriera di nascita, di vita, come una parte della testa del bambino che preannuncia la certezza di un domani, si trasforma in materia grezza, corrotta, nell’altro lato del corpo che, sotto i colpi della gradina, arriva a decomporsi evidenziando addirittura delle “assenze”. Le “assenze della materia” in Fraddosio non corrispondono al “non finito” michelangiolesco, piuttosto rappresentano un atto concettuale attraverso il quale l’artista sottolinea maggiormente la dissoluzione operata dal tempo.

Ma non è solo l’arte concettuale ad essere qui richiamata. Fraddosio infatti utilizza diversi linguaggi artistici: classico, nella materia levigata per rendere il senso della floridezza e della vita, espressionista, nella materia grezza, corrotta della vecchiaia e della decadenza fino all’informale in quel passaggio tra il blocco di pietra e la forma che comincia ad affiorare per poi tornare alla materia informe.

Per quanto concerne il procedimento scultoreo, l’artista si serve di tecniche tradizionali manuali della lavorazione della pietra che vengono da un passato lontano come la pietra che foggia utilizzando strumenti artigianali: scalpello, gradina, martello, punte, raspe, ecc… Il significato e il valore della manualità dell’artista-scultore è accentuato dai suoi interventi perfettamente leggibili sul marmo: dalla materia classicamente rifinita con carteggiatura e lucidatura con polveri e acidi e polveri abrasive, ai segni espressivi della gradina, alla materia più grossolanamente sbozzata con lo scapezzatore, più dettagliata con lo scalpello…

Dell’opera non esistono modelli preparatori in creta ma solo alcuni disegni; si tratta di una scultura diretta, d’azione, dove progetto ed esecuzione costituiscono un unico atto che ha richiesto grande impegno mentale e fisico da parte dell’artista. Per questo Mater matuta è essa stessa il risultato di un “parto”: quello dello scultore che con forza ed impeto ha plasmato ciò che aveva nel più profondo del suo animo, giù nelle viscere e, quando tutto è finito, ha osservato la sua creazione lì, ferma, che all’unisono respirava insieme a lui.

 

Floriana Carosi

Opera di collegamento

La grande carta

È un’opera in difesa della Carta Costituzionale italiana. Una pagina strappata ma mossa da un vento vitale. Sporcata da evidenti e grossolane macchie che rappresentano il goffo e pericoloso tentativo di impedire la realizzazione dei principi fondamentali modificando le parti successive. L’opera si pone come collegamento tra i cicli “Quello che resta dello sviluppo” e “Il breve termine governa il mondo”.

 

 

 

 

 

 

 

 

Le foto presenti in questa galleria sono di Maddalena Vestrella.

Quinto Ciclo

Quello che resta dello sviluppo

Sono nato in Puglia e alla mia terra sono molto legato. Ho trascorso lì la mia infanzia e sono tornato successivamente più volte in quei luoghi. Mia madre era originaria di Martina Franca un centro poco distante da Taranto. Dai ricordi prima, e dalla memoria successivamente, nasce questo ciclo.

 

Ai miei occhi di bambino, Taranto mi appariva una città strana: due mari, un ponte girevole , un mucchio di case di pietra dorata che galleggiava a dividere il mar piccolo dal mare aperto. Intorno il verde di orti e di ulivi. Poi i pescatori con le loro barche di legno. E’ dolce il ricordo di quella Taranto.

Non vi tornai per molti anni anche se trascorrevo tutte le estati in Puglia. Fu proprio durante una delle mie vacanze, nel 1964 che mio zio lanciò l’idea di fare una gita a Taranto. Trovai una città trasformata, quasi irriconoscibile, frenetica . Macchine e moto affollavano le strade, rumori di motori e clacson . Una città caotica. Non si avvertiva più l’odore del mare. L’Italsider aveva iniziato la produzione da un anno. A Taranto tornai nel 1978, giovane architetto per ragioni professionali. Giunto in città fui colto da un senso di spaesamento e di angoscia . Che senso avevano quei quartieri tanto, troppo a ridosso della grande acciaieria?

 

Non riuscivo a capire. Forse avrei dovuto essere preparato, sapevo bene cosa era successo in quella città e cosa stava succedendo e forse avrei potuto immaginare cosa sarebbe accaduto in seguito. Tornai ancora alla fine degli anni 90 e ancora nei primi anni del 2000. Arrivavo da Martina Franca in auto. Era sera. Dall’alto della collina che degrada verso il mare guardai, Taranto non c’era più. Vidi un Inferno di fuoco e di fumo. La più grande acciaieria d’Europa aveva mangiato la città, la campagna e aveva bevuto il mare. Risalii in macchina e tornai indietro. Non volevo cancellare i miei ricordi . Quelli dovevano restare dov’erano. Ora occorreva studiare per capire, attivare la memoria.

Cominciai a pensare al ciclo “quello che resta dello sviluppo”, alla più grande acciaieria d’Europa, prima Italsider, poi Ilva, ora Arcelormittal e domani, probabilmente, il nulla. Iniziai a lavorare.

A fianco all’impianto altri due mostri sbuffavano veleni: il petrolchimico e il cementificio. Perché tanto accanimento su quella città? Taranto è l’esempio di quello che resta dello sviluppo. Lo “sviluppo”, come lo intendeva Pier Paolo Pasolini, da contrapporre al “progresso”. Il primo mette al centro le tecnologie, il secondo l’uomo e il suo pensiero. Si ha la sensazione, studiando la storia dello sviluppo di Taranto, che lì, non so quanto involontariamente, fosse stato realizzato un esperimento: verificare un macabro livello di sopportazione dell’uomo: per il lavoro si può andare oltre la vita? A Taranto le persone si ammalano e non soltanto gli operai ma anche i bambini: malattie respiratorie, cardiache e tumori.

Per la realizzazione della fabbrica-mostro furono abbattuti 40.000 ulivi secolari . Cosa può nascere da un simile scempio?

 

Il ciclo si compone di diverse opere. L’opera centrale, è una installazione: “le tute e l’acciaio”.

E’ formata da dieci pannelli su cui è deposta una lamiera lacerata, sporcata di ossido e di acidi, incendiata. Sono le tute che gli operai, finito il turno, depositano in una specie di camera di compensazione prima di andare alle docce.

Ho trattato la lamiera in modo da apparire all’osservatore come un grossolano panneggio antropomorfo ma anche come l’elegante, innocente, straziata anima di chi indossa quelle tute .

I dieci pannelli sono stati inseriti in altrettanti cassoni di acciaio Cor-ten ossidato che rappresentano gli edifici degli operai, rossi di polvere velenose, costruiti a ridosso dell’impianto. Altre opere del ciclo: “dodici carte malate” e “quello che resta dello sviluppo”.

Opera di collegamento

Le Grande Arche de la Fraternité, dedicato a Thomas Sankara

È un albero quasi sradicato, inaridito dall’incuria dell’uomo e dall’ostilità del clima. L’albero si piega, si tende, quasi si spezza fino a toccare terra con i suoi rami che si trasformano antropomorficamente in un corpo (quello di Sankara) apparentemente senza vita. Ma, da quel corpo, da quelle braccia-rami che si infilano in quella terra arida, come margotta, nasce una nuova pianta. Un monumento dedicato ad un uomo africano che indicò la strada verso il progresso al suo popolo e non solo.
Nato nell’Alto Volta e morto nel Burkina Faso in un attentato ispirato da potenze occidentali.

Leggi il commento critico di Floriana Carosi

“… I semi che abbiamo seminato in Burkina e nel mondo sono qui. Nessuno potrà mai estirparli. Germoglieranno e daranno frutti.
Se mi ammazzano arriveranno migliaia di nuovi Sankara…

(Thomas Sankara – Dal Discorso sul debito, Organizzazione per l’Unità Africana, Addis Abeba, 29 luglio 1987)

Il 15 ottobre del 1987 veniva ucciso Thomas Sankara, il presidente del Burkina Faso, leader carismatico la cui prematura scomparsa, all’età di 37 anni, ha cambiato il destino dell’Africa incidendo pesantemente sui ritardi di una crescita economica e democratica dell’intero continente. Eppure grazie alla lungimiranza e alla forza trascinatrice di questo rivoluzionario presidente, per quattro anni, a partire dal 1983, il Burkina Faso, “la terra degli uomini integri” – paese nato dall’Alto Volta, colonia alla quale la Francia concesse l’indipendenza formale nel 1960 – visse una rinascita senza precedenti.

Sankara ebbe “il coraggio di inventare il futuro” per il suo paese definito come “un concentrato di tutte le disgrazie del mondo” e lo dimostrò adoperandosi per affrancare il popolo africano dalla morsa del colonialismo e soprattutto dalla nuova e persuasiva forma di schiavitù finanziaria, quella del debito. Egli intuì che bisognava riprendere le redini del continente con le proprie forze e liberarsi da certe tradizioni obsolete; iniziò cambiando il nome di Alto Volta, retaggio del periodo coloniale, in Burkina Faso e  si impegnò per eliminare la povertà  attraverso il taglio degli sprechi statali e la soppressione dei privilegi delle classi agiate; finanziò un ampio sistema di riforme sociali incentrato sulla costruzione di scuole, ospedali e case per la popolazione in estrema povertà; diede avvio a programmi per la promozione dello sport e l’ampliamento della rete dei trasporti pubblici, oltre a condurre un’ importante lotta alla desertificazione con il piantamento di dieci milioni di alberi per il rimboschimento del Sahel.

Il programma politico di Sankara ebbe inoltre a cuore il miglioramento delle condizioni delle donne poiché egli sosteneva che “la rivoluzione e la liberazione delle donne vanno di pari passo”. Un’ idea molto evoluta questa di Sankara che fa coincidere la lotta per i diritti sociali con quella per i diritti civili poiché imprescindibili gli uni dagli altri. L’emancipazione delle donne, inoltre, non era un “atto di carità o di compassione umana”. Si trattava di “…una necessità alla base della rivoluzione. Le donne reggono l’altra metà del cielo”.  Inserì così le donne nella vita politica e militare del paese addirittura incoraggiandole a ribellarsi al maschilismo imperante.

Ma il vero grande coraggio, Sankara lo dimostrò da subito, quando si rifiutò di saldare gli assurdi debiti pretesi dagli ex coloni (“…che non moriranno se non ripagheremo il debito, mentre il nostro popolo si”), suggerendo di istituire un nuovo fronte economico africano da contrapporre a quello europeo e statunitense al fine di rendere il paese autosufficiente e libero da importazioni forzate. Incentivare la produzione e l’economia locale significava porre fine alla schiavitù economica dell’Occidente. Per questo sosteneva nei suoi discorsi “bisogna produrre, produrre di più perché è normale che chi vi dà da mangiare vi detti anche le sue volontà”.

Divenuto personaggio scomodo, troppo scomodo, soprattutto per il piano egemonico mondiale messo in atto dai poteri finanziari internazionali attraverso lo strumento del debito, “il presidente ribelle” fu ucciso dal suo collaboratore nonché successore Blaise Compaoré, verosimilmente appoggiato da potenze occidentali.

La figura di Thomas Sankara, nato nell’Alto Volta e morto nel Burkina Faso, che indicò la strada verso il progresso al suo popolo e non solo, poichè …”D’altro canto le masse popolari europee non sono opposte a quelle africane anzi, quelli che vogliono sfruttare l’Africa sono gli stessi che sfruttano l’Europa. Abbiamo un nemico comune…”, ha ispirato ad Antonio Bernardo Fraddosio un’originale opera che l’artista definisce “di collegamento” tra i due cicli “Salvarsi dal naufragio” e “Quello che resta dello sviluppo”.

La produzione artistica di Fraddosio negli ultimi venti anni si svolge come un grande componimento senza finale dove i cicli rappresentano capitoli che trattano temi universali e le opere rappresentano pagine. I diversi cicli si sovrappongono attraverso alcuni lavori che, come in questo caso, fanno da raccordo e concorrono alla costruzione del “filo rosso” del grande componimento. Sono opere attente al contenuto, perché, scrive Fraddosio: “l’artista non si può accontentare di presentare come opere d’arte le proprie sperimentazioni formali, gli effetti di un evento o di una condizione esistenziale personale…In questo momento storico l’arte deve fare essa stessa politica, mettere contenuto nelle opere e non solo. Gli artisti devono mettere la politica, nella sua accezione più alta, nel loro lavoro. Tutta la produzione artistica che non si ispira a questo principio, per me fondamentale, è ormai da considerarsi stantia, ridotta a mera decorazione, a orribile operazione finanziaria gestita da ricchi per i ricchi”.

Il ciclo “Salvarsi dal naufragio”, come scrive lo stesso artista, è legato “al tema del grande esodo o, meglio, deportazione dei popoli del sud del mondo verso il nord”. L’opera centrale del ciclo, “L’isola nera 2013 annus horribilis”, presente nelle collezioni del MACRO di Roma, nasce da un drammatico episodio che accadde nell’ottobre del 2013 quando, al largo di Lampedusa, a seguito di un naufragio, morirono 388 migranti. Si tratta di un polittico costituito da dodici formelle che rappresentano i dodici mesi dell’anno 2013. Per realizzarle, l’artista si pone nella posizione visiva del migrante paradossalmente consapevole che quel grumo nero, l’isola, che rappresenta per lui una speranza, è in realtà esso stesso un barcone nella tempesta. Le formelle recano dei sottotitoli composti dal mese, anno, numero degli sbarcati e numero di morti. L’artista rileva che nel gennaio 2013 sono sbarcate appena 227 persone, nove mesi dopo, il numero sale a 9200; come è possibile che all’epoca, nessun governo si rese conto che dietro quei numeri si nascondeva la drammatica realtà, ormai inarrestabile, del fenomeno migratorio? Scrive Fraddosio: “A me parve chiaro che quello che all’inizio sembrò essere l’esodo di disperati che fuggivano da guerre e fame, stava diventando una vera deportazione di massa…In un mondo ormai globalizzato dal nuovo capitalismo che concentra sempre più le ricchezze nelle mani di pochi, era necessario globalizzare anche la forza lavoro” Con queste parole l’artista esprime il suo pensiero sull’evoluzione apocalittica di certi eventi e fenomeni inizialmente sottovalutati da tutti, soprattutto dai cosiddetti poteri forti, proprio quelli che hanno poi dato una spinta determinante a scatenarli.

In continuità con “Salvarsi dal naufragio” nasce il ciclo successivo “Quello che resta dello sviluppo” che vede nell’installazione “Le tute e l’acciaio” la sua opera più rappresentativa.

Dieci “tute di ferro”, dieci cassoni in acciaio ossidato, al cui interno alloggiano altrettante lamiere modellate come panneggi metallici, lacerate, incendiate. Le tute sono quelle indossate dagli operai degli stabilimenti siderurgici ex Ilva, oggi Arcelormittal Italia, per “difendersi” dai tumori provocati dalle polveri letali.

L’installazione, che è stata esposta da novembre 2018 a maggio 2019 presso la GAM di Roma nell’ambito della mostra “Antonio Fraddosio. Le tute e l’acciaio”, costituisce quindi un potente tributo alla tragedia dimenticata dell’ex Ilva di Taranto e alle sue vittime.

Quello che doveva essere un esempio di crescita, di benessere, di progresso si era trasformato in un assurdo strumento di morte e distruzione. A Taranto, la più grande acciaieria d’Europa non ha mai smesso nel tempo di provocare morti tra operai, cittadini e bambini a causa dei gravi effetti dell’inquinamento e del degrado ambientale.

Come è possibile che i progressi realizzati dall’uomo negli ultimi duecento anni si risolvano in questo terribile scenario di autodistruzione? E’ lo stesso artista a fornirci una risposta: “Semplicemente perché non si trattava di reale progresso bensì solo di sviluppo di tecnologie. Lo sviluppo non è sinonimo di progresso, ma come affermava Pier Paolo Pasolini, spesso ne rappresentava l’opposto. Il primo mette al centro le tecnologie, il secondo l’uomo e il suo pensiero”. Quindi, se lo sviluppo non è accompagnato da una adeguata crescita di pensiero, produce inevitabilmente danni e il degrado ambientale è opera del modo in cui si evolve lo sviluppo globale.

La sistematica distruzione dell’ambiente e dell’uomo è realizzata attraverso una precisa e attenta strategia tesa solo al raggiungimento dei massimi profitti economici in tempi rapidi all’interno di un sistema economico-finanziario globalizzato in cui l’uomo, prigioniero delle lobbies di potere, è costretto sempre più ad una condizione di servilismo.

Un artista impegnato e “militante” come Antonio Fraddosio rimane affascinato dalla figura dell’eroe rivoluzionario burkinabè Thomas Sankara, profeta della libertà e della giustizia, che, con fiducia e coraggio, si era schierato a parole e nei fatti dalla parte degli oppressi, del mondo rurale, delle donne; persino degli alberi.

Ed è proprio un albero che ha ispirato lo scultore per l’opera che, nella versione definitiva, sarà realizzata a grandezza naturale, in lamiera di ferro incendiata e collocata all’aperto.

Il Sankara di Fraddosio è un albero, quasi sradicato, inaridito dall’incuria dell’uomo e dall’ostilità del clima che si piega ad arco, si allunga, quasi si spezza fino a toccare terra con i suoi rami. Quei rami secchi, accennano ad un corpo, (quello di Sankara), con le braccia protese verso la terra. Da quel corpo, apparentemente senza vita, da quelle braccia-rami, che si infilano nella terra arida africana, come per margotta, nasce una nuova pianta collegata alla pianta madre.

L’”albero-Sankara” ricorda la Dafne berniniana a cui è legato dal tema della metamorfosi.

Nel gruppo scultoreo berniniano, nel momento di massima tensione drammatica, Apollo afferra Dafne nell’istante in cui è iniziata la trasformazione del suo corpo in pianta di alloro.

Nell’opera di Fraddosio invece il passaggio di forma avviene in senso inverso e doppio: una pianta morente si trasforma in un essere umano e nelle sue idee di rinascita e attraverso le sue braccia-rami darà origine ad una nuova pianta.

E’ inoltre forte il richiamo nell’opera sia al tema della ciclicità, del passaggio morte-vita presente già in lavori precedenti dell’artista come “Mater Matuta”, sia al messaggio di speranza della “Venere di Palestina”, anche questa opera di collegamento, dove il corpo di donna, avvolto in un sudario di lamiera contorta che le copre il volto e le trafigge il ventre, emana una forte sensualità a significare “disperata vitalità”.

Le opere di Fraddosio possono essere definite – come ha detto lo scrittore e drammaturgo  Rocco Familiari –  dei veri e propri “ racconti” per le sensazioni che rappresentano e suggeriscono; anche questa  va osservata attentamente da varie prospettive, lontano, intorno, attraverso ma anche molto da vicino per scoprirne alcuni dettagli dalla forte valenza simbolica come l “ombelico-vulva” che l’artista  realizza sul corpo – albero, al centro dell’addome, la cui immagine vivificatrice è rafforzata dalla presenza dell’organo sessuale maschile che si intravede subito sotto.

L’ombelico è il centro della vita, il centro generatore per eccellenza, attraversato da tutti i flussi vitali, compresi quelli che alimentano il feto, che nasce dalla vulva. L’artista torna ai temi della fecondità, della riproduzione, della rinascita e della vita che, non a caso, ben si legano alla figura della donna tanto cara a Sankara che aveva fatto dell’emancipazione femminile uno dei punti cardine del suo programma politico.

L”’albero-Sankara” parte dalla terra e torna verso la terra formando un grande arco che dà il titolo all’opera e che polemicamente richiama “Le Grande Arche de la Fraternité” di Parigi conosciuto anche con il nome di “Grande Arche de la Défense”.

Nel 1983, anno in cui Sankara divenne presidente, a Parigi iniziarono i lavori per la costruzione del “Grande Arche de la Fraternité”, concepito come una versione del XX secolo dell’Arco di Trionfo dell’Etoile, perché fosse un monumento consacrato all’umanità e agli ideali umanitari piuttosto che alle vittorie militari. Fu il presidente francese Françoise Mitterand che commissionò il monumento al fine di prolungare l’asse storico di Parigi, la cosiddetta via Trionfale, costituita da un insieme di edifici, monumenti e strade che si estendono verso Ovest a partire dal centro, dal cortile del Louvre al Grande Arche de la Défense, appunto, nel distretto Paris La Défense, nel dipartimento degli Hauts-de-Seine.

L’arco fu inaugurato nel 1989, due anni dopo l’assassinio di Sankara, nel bicentenario della Rivoluzione francese.

Oggi il “Grande Arco della Fraternità”, ubicato nel quartiere degli affari più grande d’Europa, La Défense, caratterizzato dalla presenza massiccia di centri commerciali, grattacieli ed uffici, strutture dedicate alle aziende e al business, spicca per la particolarità della sua forma pressoché cubica ricoperta di marmo bianco di Carrara, granito e vetro e ospita al suo interno uffici governativi ed un centro congressi ed esposizioni.  Ecco come il mondo ricco, in particolare l’Occidente, ha concepito gli ideali di libertà, uguaglianza, fratellanza fra gli uomini; quello stesso mondo che nel 1987 ha ucciso Sankara e dopo due anni ha voluto celebrare la prima vera “Rivoluzione” nella storia, quella del 1789, con un monumento consacrato agli ideali umanitari nel cuore del business della capitale francese.

Fraddosio, nel cogliere questa forte contraddizione e forse nel tentativo di superarla attraverso l’arte attribuisce al suo “Grande Arco” un significato originale. Egli trascende la sua definizione di elemento strutturale in architettura per renderlo un luogo di “attraversamento simbolico”. Mediante l’arco, l’opera comunica con lo spazio circostante e attiva misteriosamente percezioni nascoste all’osservatore che lo attraversa e che riesce a sentire e appunto percepire maggiormente il messaggio dell’opera.

In epoca romana il passaggio sotto l’arco di Trionfo aveva un significato ben preciso per il condottiero: la memoria delle vittorie militari ma allo stesso tempo un cambiamento di stato, il ritorno ad una condizione di normalità dopo la guerra, una sorta di purificazione, un ritorno all’innocenza e alla pietas dopo le uccisioni e le stragi compiute.

Allo stesso modo attraversare “Le Grande Arche” di Fraddosio significa effettuare un atto simbolico, una sorta di purificazione, di rinnovamento individuale e universale, ma nel contempo significa dare risalto al valore della memoria, per non dimenticare l’uomo Sankara e soprattutto le sue idee di rinascita che in qualche modo avrebbero cambiato il mondo ma che comunque non sono state vane. Inoltre, attraversare l’arco significa tornare a riflettere sul tema della ciclicità della vita tanto caro all’artista: l’arco parte da terra con le radici che muoiono e torna a terra con la nuova pianta che cresce.

L’opera, quale studio preparatorio in scala ridotta per il monumentale “Grande Arche”, costituisce una fase dell’originale processo creativo dell’artista, che trova nel disegno la sua prima funzione ideativa.

Gli interessanti schizzi per l’opera eseguiti a china non sono soltanto studi grafici dell’idea ma “rappresentazioni emotive”, come lui stesso li definisce, poiché in essi “l’artista-architetto” intuisce già la tridimensionalità dell’immagine, il suo sviluppo nello spazio.

Questo modello in scala ridotta che segue appunto lo studio grafico non ha più nulla di improvvisato, è già un’opera a sé stante, dotata di una propria autonomia e di completezza artistica che “l’artista-architetto” realizza con materiali di recupero, di cantiere, di cui ben conosce il valore espressivo, le potenzialità tecniche ed i risvolti segreti.

La struttura interna dell’albero-arco è costituita da un’armatura di ferro dolce che l’artista piega e adatta all’andatura della forma secondo la sua visione estetica. La struttura viene avvolta da canapa e tela di juta precedentemente impregnati di un impasto di stucco, cemento e gesso che creano sulla superficie affioramenti di materia modellati con le mani dall’artista per dar loro una qualità estetica.

Questi semplici materiali sono magistralmente plasmati dall’artista per ottenere l’effetto materico del legno dell’albero e la straordinaria fedeltà mimetica del tronco nodoso e possente, con i suoi profondi anfratti che ricorda gli alberi secolari del Burkina Faso.

La composizione, fissata su un carrello, poggia su una base cosparsa di polvere di ferro e pozzolana, materiali utilizzati per replicare la terra rossa africana.

Con questa opera Fraddosio dimostra ancora una volta di essere un artista-intellettuale politico, che utilizza il lavoro artistico per raccontare la verità, per rappresentare la realtà e condannare un potere di cui siamo tutti prigionieri. L’arte non è autoreferenziale. L’arte può essere un mezzo di cambiamento.

Del resto, Fraddosio ama ripetere le parole di Picasso: “Che cosa credete che sia l’artista un imbecille che ha solo gli occhi, se è un pittore… no, egli è anche un uomo politico, costantemente sveglio davanti ai laceranti, ardenti o dolci avvenimenti del mondo… La pittura non è fatta per decorare gli appartamenti. È uno strumento di una guerra offensiva e difensiva contro il nemico”. L’arte in generale è quindi una guerra che va combattuta con i propri strumenti, con il proprio linguaggio anche se indiretto, evocativo, ed in questo risiede la sua forza sovversiva: nell’opposizione ad uno status quo e nella costruzione di una realtà alternativa.

Da qui l’aforisma di T.W. Adorno: “ogni opera d’arte è intrinsecamente rivoluzionaria”.

In alcune recenti interviste, l’artista, ha spesso citato le parole del poeta italo-new-yorkese Lawrence Ferlinghetti, poeta di spicco della beat generation, recentemente scomparso, che, nella raccolta intitolata “Poesia come arte che insorge” (2009), a proposito della sua idea di poesia, scrive:

Ci sono tre tipi di poesia. La poesia supina accetta lo status quo. La poesia seduta scritta dal sistema seduto ha una verità dettata dal suo lavoro di giorno. La poesia in piedi è la poesia dell’impegno, a volte grande, a volte terrificante.

L’idea di poesia come braccio della lotta di classe disturba il sonno di coloro che non vogliono essere disturbati nella ricerca della felicità.

Il poeta per definizione è portatore di Eros e amore e libertà e quindi nemico naturale non violento dello Stato.

È ultima Resistenza.

Il poeta è un barbaro sovversivo alle soglie della città che sfida costantemente il nostro status quo”.

Secondo l’artista l’idea di poesia di Ferlinghetti può essere traslata a tutte le altre forme di arte. Parole e immagini sono chiamate a condividere gli stessi spazi e a veicolare, ove possibile, lo stesso messaggio. Linguaggio artistico e parole corrono parallele si compenetrano nel senso, uniscono le proprie forze espressive e linguistiche per raggiungere il lettore/osservatore.

Gli artisti militanti alternano l’impegno socio-politico a lirismo puro cosi come l’esigenza di condannare le storture di questo mondo ferito e sofferente si alterna alla volontà di affermare speranza e possibilità di riscatto.

Quella di Fraddosio, artista “barbaro sovversivo” è quindi l’Arte “in piedi” di Ferlinghetti, un’arte di grande impegno che manifesta la propria forza politica, “che sfida costantemente lo status quo” attraverso la forma e la felicità espressiva.

Scrive ancora Ferlinghetti: “Se vuoi essere un poeta, crea opere capaci di rispondere alla sfida dei tempi apocalittici, anche se questo significa sembrare apocalittico”.

Nel “poeta-apocalittico” di Ferlinghetti c’è tutto Antonio Fraddosio ed il suo lavoro artistico.

                                                                                                                                                                                                    

Floriana Carosi

Nel 1983, anno in cui Sankara divenne presidente, a Parigi iniziarono i lavori per la costruzione del “Grande Arche de la Fraternité” monumento dedicato agli ideali umanitari, che si conclusero con l’inaugurazione nel 1989 due anni dopo l’assassinio di Sankara. L’opera è una riflessione polemica su come il mondo ricco, in particolare l’occidente, concepisce la libertà, la fraternità e l’uguaglianza tra gli uomini.
Oggi le “Grande Arche de la Fraternité”, forse per un inconscio senso di vergogna, è conosciuto con il nome di “Grande Arche de la Défense”, il quartiere degli affari più grande d’Europa.
Collega i cicli “Salvarsi dal naufragio” e “Quello che resta dello sviluppo”.

Quarto Ciclo

Salvarsi dal naufragio

Erano già presenti nel ciclo “L’animale sociale” e nel ciclo “La costruzione della distruzione” due opere: ”Distacchi” (2002) e “Le onde nere”(2011) che dettero avvio ad un nuovo ciclo: “Salvarsi dal naufragio.”

 

Il tema del grande esodo o, meglio, deportazione, dei popoli del sud del mondo verso il nord, mi aveva già colpito nei primi anni del 2000 ma la drammaticità di questo evento emerse successivamente ed ebbe uno dei momenti più terribili nel naufragio dell’ottobre 2013, quando, al largo di Lampedusa, a seguito di un naufragio, morirono 388 persone.

 

Da questo episodio nacque l’opera centrale di questo ciclo dal titolo “L’isola nera 2013 annus horribilis”. L’opera è un polittico costituito da dodici formelle che rappresentano i dodici mesi dell’anno 2013. Mi sono posto, nel realizzarle, nella posizione visiva del migrante avendo però la consapevolezza che quel grumo nero, l’isola di Lampedusa, che rappresenta per loro una speranza, è in realtà esso stesso un barcone nella tempesta.

Le formelle hanno dei sottotitoli composti dal mese, dall’anno, dal numero degli sbarcati e dal numero dei morti. Ho così voluto sottolineare la singolarità del fatto che nessun politico europeo si domandò, o cercò di capire, come mai nel gennaio del 2013 sbarcarono appena 227 persone e, nove mesi dopo, ne sbarcarono 9200 ; eppure era evidente che dietro questi numeri si nascondeva una realtà: l’inarrestabilità del fenomeno migratorio.

 

L’artista, con le proprie opere, pone le domande, non certo le soluzioni. A me parve chiaro che quello che all’inizio sembrò essere l’esodo di disperati che fuggivano da guerre e fame, stava diventando una vera deportazione di massa.

 

In un mondo ormai globalizzato dal nuovo-capitalismo che concentra sempre di più le ricchezze nelle mani di pochi, era necessario globalizzare anche la forza lavoro. Realizzai altre opere in questo ciclo che, successivamente, presentai nella mostra “Salvarsi dal naufragio” 2016, Roma.

Opera di collegamento

La venere di Palestina

Quest’opera unisce i cicli “Resistenti oltre” e “Salvarsi dal naufragio”. È dedicata ai morti civili delle guerre. Il corpo di una donna di Palestina, terra che non conosce pace da troppo tempo. Un corpo avvolto in un sudario di lamiera contorta che le copre il volto e le trafigge il ventre. Un corpo deposto su un altare anch’esso violato. Un corpo che emana sensualità a significare “una disperata vitalità”.

 

 

La prima foto della galleria è di Afra, le altre sono di Massimiliano Ruta.

Terzo Ciclo

Resistenti oltre

Si trattava di individuare personalità che avessero avuto, nel passato recente, un ruolo storico di opposizione alle dittature e di lotta per il riscatto delle classi più povere.

 

Ho voluto richiamare l’attenzione su alcune figure, sconosciute ai più, che hanno affermato l’importanza e la necessità per l’uomo di lottare per la libertà e per il progresso, considerando come esclusivo compenso, lo stesso loro agire.

 

Ho realizzato sei opere dedicate a questi personaggi: “la sottana di Louise” per Louise Michel, “le ali nere di Errico” per Enrico Malatesta, “come il vento nella tempesta” per Amilcare Cipriani, “la porta rovesciata” per Giuseppe Gracceva, “gallerie pericolose” per Pietro Cocco, “le tre radici di Giacomo” per Giacomo Corcella.

Opera di collegamento

La bandiera nera nella gabbia sospesa

Una bandiera, se non si muove libera nell’aria, non è. Questa bandiera nera, colore dell’anarchia , il più alto e utopico ideale di libertà, è disperatamente ferma in uno sventolio confinato nella memoria. Chiusa in una gabbia che, al contrario, può muoversi solo seguendo poche traiettorie definite e imposte da ingranaggi meccanici studiati per consentire semplici e limitati gradi di libertà. Quest’opera è il nodo che lega il ciclo “La costruzione della distruzione” a quello “Resistenti oltre”.

Leggi il commento critico di Predrag Matvejevic

Ho conosciuto Fraddosio dapprima sulla scena teatrale. Sue infatti le scenografie di tre lavori di Rocco Familiari: al Festival dei Due Mondi di Spoleto, nel 2003, per il dramma “L’odore” (con Enrico Lo Verso), e, l’anno successivo, richiamato da Missiroli per “Amleto in prova”; al Teatro di Messina per il dramma “Agata”, da cui il regista Zanussi ha tratto la sceneggiatura per il suo film “Il sole nero”, interpretato da Valeria Golino.

È solo più tardi che ho avuto occasione di vedere anche le sculture.

Non riuscivo immediatamente a “catalogare” questi straordinari oggetti, anche se mi rendevo conto della loro specificità poetica. Una prima interpretazione mi spingeva verso Jean (Hans) Arp e il suo “Berger des nuages”, cioè verso una sorta di “art brut” che fu, fino a tempi recenti, di moda. Ma l’originalità di questo scultore, pittore, disegnatore non si lascia ridurre a facili analogie né costringere dentro abituali categorie.

Le sue “Tensioni e Torsioni” sono delle vere “compressioni esplosive”, trasformano nello stesso tempo la forma e il contenuto, se è permesso dividere queste due cose, qui unite in, e da, una strana “materia del tempo”. Entrano in gioco le varietà o le qualità dei materiali di cui l’artista si serve: ferro, legno, tela, forse pure certe specie di catrame, di carbone o cemento, di gesso anche, e di Dio sa che altro ancora…

L’opera che segnalo, per la sua esposizione nell’ambito della mostra veneziana, è la più recente di Fraddosio: “Bandiera nera dentro una gabbia sospesa”. Una struttura curvilinea, realizzata con i materiali cari all’artista, legno, cartongesso, catrame, imprigionata dentro una struttura di metallo arrugginito. È un oggetto di straordinaria potenza evocativa e simbolica, che meriterebbe di diventare l’emblema di una rassegna che rappresenta uno sforzo inaudito di imporre il senso, l’imprescindibilità, dell’arte, in un tempo e in una società che sembra invece rifiutarla.

 

Testo di Predrag Matvejevic per la presentazione dell’opera alla 54° Biennale di Venezia